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ANGELICA PIRAS, REGINA DELLE OMBRE

INCONTRI D’AUTORE

La poetessa Angelica PIRAS

e la sua silloge

Regina delle ombre

In asulu bisenti

 

Con l’intervento della psicologa e psicoterapeuta

Lucia ATTOLICO

 

        Sabato 16 Maggio 2015, alle ore 17,30, presso la sede dell’Associazione sarda Nosu Impari di Torino, ha avuto luogo l’incontro con la poetessa Angelica PIRAS e con la psicologa e psicoterapeuta Lucia ATTOLICO. 

    Dopo una breve introduzione della Presidente, Luisa Pisano, la segretaria dell’Associazione, prof. Pia Deidda, ha presentato il libro “Regina delle ombre” e ha letto una delle più belle e significative poesie “Guerriera”. 

Il componimento è stato scelto, perché in esso sono presenti le tematiche della serata:

i gravi problemi di Angelica in famiglia, la sua determinazione a non soccombere e i segreti per riuscirci.

    La poetessa è stata affiancata dalla dottoressa Attolico che, psicologa e psicoterapeuta, ha aiutato tutti a comprendere e a sviluppare gli argomenti.

     “Regina delle ombre” è Angelica stessa – ha osservato la dottoressa. Come lei, infatti, il libro piange e ride, soffre e cerca la salvezza; come lei ha paura della paura e ama l’Amore; di fronte all’impotenza chiede aiuto e libertà.

      La serata è stata particolarmente emozionante, perché le vicissitudini della bambina, dei fratelli e della mamma, alla mercè della furia incontrollata del padre malato, hanno destato solidarietà e commozione.

      Raccontarsi, ha rappresentato per la poetessa un modo per aprirsi e alleggerire il suo pesante fardello di pene, ma ha soddisfatto nello stesso tempo l’esigenza di offrire un possibile aiuto al lettore.

      La lettura delle prose introduttive e delle poesie ha fatto emergere da un lato terribili sofferenze fisiche e morali, dall’altro la forza vittoriosa della Vita. Grazie a questa forza, la bambina ha trovato momenti rigenerativi e nuove risorse per sorridere e per regalare ai fratelli un po’ del suo sorriso.

     Angelica ha parlato della tristezza che l’assaliva, quando doveva scegliere da che parte stare – chi dovevo voler meno bene, e a chi dovevo far star bene? – e dei sensi di colpa che la tormentavano tutte le volte che non riusciva a confortare la mamma: di fronte ai maltrattamenti da lei subiti, infatti, si sentiva fragile e doveva cercare rifugio nella protezione di luoghi nascosti.

     La vita, la natura, la fede hanno dato ad Angelica la forza di reagire anche nei momenti in cui più fortemente desiderava che la donna celeste, a cui spesso si rivolgeva fiduciosa, la portasse via con sé. La donna celeste era la Madonna, l’unica dalla quale potesse ricevere coraggio e parole dolci.

       Si è parlato anche dei colori e della luce, con cui la bambina dominava le ombre che con un’ascia la dividevano dall’infanzia.

        L’immergersi nella natura reale o immaginata ha salvato Angelica. E’ riuscita così ad attraversare il dolore a piedi nudi senza diventare pietra e ad avere un cammino di rose e viole.

Noi facciamo parte della natura, è stato detto dalla dottoressa, ed è per questo che abbiamo bisogno di stare a contatto con essa.

Perciò Angelica trovava pace sull’albero e rifugio dentro l’armadio di “cedro”. Il profumo naturale del cedro ristorava il suo animo e alimentava la sua fantasia, allontanandola dalla realtà e addolcendole il cuore.

       Questi alcuni dei “segreti” di Angelica per “vincere la partita con il buio”, trasmessi al lettore come “spunti” di trasformazione.

     Forte il richiamo alla gioia della trasformazione e del riscatto; alla rivalutazione dell’Amore che può contaminare anche gli altri : in altre parole, alla bellezza della Vita, al di là delle tovaglie d’ipocrisia, cioè al di là della falsità.

La Vita merita di essere vissuta – è stato detto – e l’Amore genera Amore.

E’ quest’Amore che ha riavvicinato la figlia al padre. Angelica, cresciuta, ha avuto pietà di quell’uomo e la pietà, lei dice, fa parte dell’Amore. Angelica ha offerto la sua umanità non al padre – lei non sa cos’è un padre – ma ad un essere umano malato, anche lui con un triste vissuto, e che pure le ha donato qualche breve momento di dolcezza.

     Il libro parla anche di due Angelica: l’una con i nodi del dolore e della tristezza, l’altra con i dolci sogni di miele e vaniglia.

     E’ un libro che insegna veramente tanto, ha affermato la psicologa, ci fa conoscere esperienze significative e, dunque, crea cultura. Quello che impariamo, informandoci e leggendo, si aggiunge a quelle forme di cultura che ci portiamo dentro dalla nascita, che caratterizzano l’ambiente storico – sociale da cui proveniamo e che ci distinguono dagli altri. E’ la nostra cultura che condiziona gran parte delle scelte che facciamo ed è essa che, assieme ad altri strumenti, come la psicoterapia, contribuisce alla soluzione di tante problematiche.

    I dialoghi e le riflessioni hanno coinvolto il pubblico che ha applaudito più volte calorosamente e che è intervenuto con numerose domande anche di carattere generale.

 

Eccone alcune:

  • Cosa ci permette di capire se un bambino vive nella sofferenza e nella violenza?
  • Si può definire violenza anche il carico di impegni che scuola e famiglia danno ai bambini spesso in modo eccessivo?
  • Quanto l’adulto, sempre presente, condiziona negativamente l’incontro del bambino con se stesso?
  • Quanto le leggi e le strutture sociali esistenti oggi in Italia sono in grado di aiutare veramente le famiglie disagiate?
  • Angelica si è avvicinata al padre per pietà o per perdono?

 

    Gli interventi pacati e chiari hanno stimolato profonde riflessioni e il pubblico si è mostrato soddisfatto dell'incontro.

     

© Antonina Orlando 20 Maggio 2015

 

 

                                                                                                                    

L’ACINO DELLA TENACIA

 

IlImmagine1 treno avanzava lungo verdi prati trapunti di fiori colorati, di bianche margherite e di rossi gerani; superava case, agrumeti e oleandri rosa, bianchi, cremisi. Oltrepassava velocemente anche le colline circostanti, dalle quali  pini marittimi e gialle ginestre guardavano verso il piano e verso l’azzurro del mare poco distante. Un nastro di sabbia finissima tenuemente dorato, largo e continuo, seguiva il profilo della costa, separando la calma distesa marina dal verde e dai colori circostanti.

Anna, sempre accanto al finestrino, non si lasciava sfuggire nessun particolare di quello spettacolo straordinario, illuminato da un sole stupendo. Da una parte il verde e i colori dei campi, dall’altro le strie celeste chiaro o blu intenso delle correnti marine che si diramavano in direzioni diverse, le macchie chiare delle navi lontane e le petroliere rossastre con la loro forma particolare. L’aspetto del mare variava di continuo e il suo azzurro intenso sfumava all’orizzonte in lievi colori, confondendosi con le tinte del cielo sereno. Anche lassù in alto lo spettacolo era interessante e solleticava la fantasia e MARE PINI GINESTREl’immaginazione: rade nuvole bianche, infatti, artisticamente sfilacciate, si spostavano velocemente, seguendo la corsa del treno e assumendo forme sempre diverse.

Di tanto in tanto il treno sostava in qualche stazione. “Che stazione è?” – era la domanda – e la risposta dei compagni di viaggio era ascoltata sempre con molta attenzione.

Dopo Villafranca, si entrava nel cuore dei Peloritani, in gallerie sempre più lunghe man mano che si procedeva verso Messina. Una di esse era lunghissima: la metà del suo percorso veniva segnalata da uno strano suono, che ad Anna, bambina di pochi anni, sembrava quello di piatti di metallo che cadevano.

Era partita la mattina presto assieme ai suoi, quel giorno, per andare a trovare una zia di circa sessant’anni d’età.

La donna, vedova, abitava con le sue figlie. Era di statura piccolina, i suoi capelli, di un grigio ormai chiaro, erano terribilmente crespi. Li portava raccolti sulla nuca e trattenuti da tante forcine, mentre mollette e pettinini cercavano di tenere a bada quei fili ribelli che non accettavano di stare lontano dal viso e dagli occhi. Incarnava la figura di quelle  padrone di casa che sanno tenere tutto sotto controllo; infatti, lei  riusciva a badare contemporaneamente alla cucina, alle figlie e agli ospiti. Questi ultimi, poi, erano trattati con il massimo della cortesia e della premura, pur nella familiarità della parentela.

Si capì subito che l’arrivo era atteso con piacere e tutti si mostrarono, come sempre, affettuosissimi e felici della visita.

Il tempo che precedette il pranzo, trascorse velocemente tra le chiacchiere degli adulti e il girovagare di Anna per ogni angolo della casa, dove riusciva a trovare sempre qualcosa di interessante da osservare o con cui giocare.

Purtroppo, non c’erano altri bambini; così, anche a tavola, a parte qualche breve coinvolgimento, dovette accontentarsi di sentire parlare, parlare, parlare: erano discorsi di grandi, che a tratti ridevano, a tratti mostravano vene malinconiche, a tratti alzavano la voce, raccontando fatti spiacevoli con toni che la preoccupavano.

piatto di pastaCome sempre la cucina era squisita e le pietanze riempivano l’aria di profumi invitanti, ma lei mangiò pochissimo – a sentire il giudizio degli adulti – anche se, in realtà, si sentiva a posto. Così, alla fine del pranzo, proprio al momento della partenza, le furono rivolte molte osservazioni; si trovò soprattutto al centro dell’attenzione preoccupata della zia, la quale, secondo le buone e ben note abitudini siciliane, non avrebbe permesso che la nipotina andasse via senza mangiare ancora qualcosa.

Come avrebbe potuto affrontare il viaggio?

Sicuramente il non aver mangiato a sufficienza (i parametri con cui valutava erano del tutto personali) avrebbe causato alla nipote un terribile stato di debolezza, di cui lei stessa si sarebbe sentita responsabile.

Fra il numero e l'abbondanza delle portate e i lunghi discorsi appassionati, il pranzo si grappolo d'uvaera prolungato parecchio e si era fatto già tardi. Non c’era tempo da perdere, Anna doveva accettare assolutamente qualcosa, subito, fosse anche solo un grappolo d’uva.

Accettare o non accettare il grappolo d’uva significò ben presto mettere in gioco il proprio prestigio personale; divenne lo scopo per cui si stava disputando una partita importante fra la donna e la bimba.

Le forze in campo presentavano una decisa disparità. La zia, non più giovane, era chiaramente la più forte. Godeva, infatti, oltre che del vantaggio dell’età e dell'esperienza, anche del tifo della maggior parte degli adulti: chi di loro fosse stato  incerto o avesse parteggiato in cuor suo per la bimba, avrebbe tenuto conto dell’obbligo sociale ed educativo di tacere. Anche l’idea che, una volta a casa, Anna avrebbe potuto mangiare qualcosa di particolarmente sostanzioso, non era destinata ad ottenere molto successo:

il non dare ragione ai bambini di fronte alla parola di un adulto, era uno dei punti fondamentali della pedagogia seguita dalle famiglie che Anna conosceva.

Il tempo correva e bisognava sbrigarsi, per non perdere il treno. La poverina si sentiva incalzata da ogni parte, ma, pur così piccolina com’era, non cedeva; anzi, più aumentava l’insistenza, più sentiva crescere dentro di sé la voglia di dire “No!”

Qualcuno riuscì a mediare: “Dai, Anna, accetta almeno un acino. Cos’è un acino? Non è la fine del mondo! Mettilo in bocca: farai presto a mandarlo giù, ti sentirai meglio e la zia sarà più tranquilla”.

La mediazione funzionò: la donna si arrese al compromesso …

… e l’interessata?

Ad Anna venne in mente un’idea straordinaria: avrebbe vinto, pur mostrando di lasciarsi convincere dall’insistenza generale. Tutti avrebbero pensato di avere avuto partita vinta e non avrebbero capito nell’immediato che, mostrando di accontentarli, alla fine era stata proprio lei a spuntarla.

Giustizia e dignità sarebbero state salve!

MANINA CON ACINOOrmai alle corde, ma con la chiara percezione della vittoria, fece una mezza concessione e quell’ “almeno un acino” diventò immediatamente “uno solo!”.

Tutti si ritennero soddisfatti dal cedimento: la zia, che aveva potuto dare il viatico alla nipotina; i familiari, che avevano anche evitato di perdere il treno, e lei, Anna, con il suo unico acino e con la risorsa delle sole armi a sua disposizione.

Dal momento in cui accettò l’acino, Anna o si mostrò inspiegabilmente muta o parlò in modo inspiegabilmente strano. La maggior parte delle risposte che concedeva erano comunicate a cenni o con poche parole, pronunciate in modo inusuale. Adoperò di preferenza il linguaggio gestuale … fino a quando …

Rifecero a ritroso il percorso fra la casa dei parenti e la stazione ferroviaria. Lungo la strada nessuna parola. Sul treno le venne chiesto se fosse stanca o se avesse sonno: le sue spallucce si alzarono, accompagnate dal movimento della testa che reclinava a destra, mentre contemporaneamente le sopracciglia si inarcavano e la mimica di tutto il viso diceva “un po’!”.

Avevano già preso posto nel compartimento e il treno si era mosso. Gli adulti parlavano OLEANDRO ROSA E BIANCOe commentavano: lei ascoltava e guardava case, alberi, prati e fiori che le correvano incontro, sparendo all’ingresso in galleria e ricomparendo nuovamente, quando il treno tornava all’aperto. Alla sua sinistra le dolci colline ricoperte di verde e fiori variopinti, a destra la lunga e profonda striscia azzurra del mare al di là della fertile campagna o dietro qualche gruppo di case, in prossimità dei paesi. Il tutto avvolto dalla morbidezza e dal calore di un bel tramonto ancora estivo.

Si era ormai quasi alla fine di quel tragitto, la cui durata complessiva superava di poco lo spazio di un’ora. Il lungo silenzio cominciava a diventarle pesante. Anna aveva tante cose da chiedere e da dire, senza dimenticare che spesso le veniva posta qualche domanda a cui puntualmente rispondeva con cenni del capo o con qualche parola male articolata.

 La sua resistenza, però, si mantenne salda e tenace, fino a quando decise che era giunto il momento di svelare l’arcano.

Era stata proprio brava; ne era convinta e si congratulava con se stessa. Nessuno aveva sospettato niente.

Adesso, però, assieme alla soddisfazione per la bravura, si insinuava nel suo cuoricino, che sentiva palpitare forte, un po’ di disagio; non sapeva, infatti, quali sarebbero state le reazioni degli adulti di fronte alla verità.

“Ma” – ripeteva nella sua mente – “alla fine, non volevo più niente e l’uva, poi, assolutamente no! Sono stata costretta a dire di sì!

La scena era sempre viva dentro la sua testolina e gli attori continuavano a muoversi e a parlare nel loro mondo, senza curarsi del suo.

Il “cosa diranno” la rese esitante qualche minuto ancora …, ma presto si fece coraggio e, dopo aver guardato i genitori e lo zio, si rivolse istintivamente alla cara,  paziente e rassicurante figura della nonna …

“Tieni, nonna,” – le disse farfugliando, ma facendosi capire, … e la sua manina sicura, da sotto la lingua, estrasse, ancora intatto, l’acino d’uva.

Il silenzio profondo degli attimi seguenti espresse lo stupore generale.

Ad esso seguirono le più svariate manifestazioni sonore d’incredulità e di tardiva preoccupazione per quello che sarebbe potuto succedere in seguito ad un colpo di tosse, ad un movimento brusco o ad una fermata improvvisa del treno.

Non si contarono le espressioni del tipo: “E tu hai tenuto tutto questo tempo l’acino sotto la lingua?!” “Cose dell’altro mondo!” “ E se ti fosse andato di traverso?!” “Per questo quando parlavi, non si capiva bene cosa  dicevi!”. Ma l’esclamazione più bella di tutte, istintiva e soprattutto poco ponderata, fu:

“Potevi dire che non lo volevi! ….”

I commenti naturalmente durarono molto a lungo, vista la portata del fatto. Non solo si prolungarono per giorni e giorni, ma si allargarono a dismisura, perché parenti e amici ne furono informati. Anna passò per un fenomeno e il ricordo di quella bravata rimase per sempre.

Quando si voleva sottolineare la sua  fermezza nelle decisioni ritenute giuste e necessarie, si diceva:

“Già, tu sei quella dell’acino d’uva!”. ACINO

 

                                                                                                     

 

                                                      © Antonina Orlando 17 Maggio 2015

 

 

TESTIMONIANZE E RICORDI

Nella ricorrenza del centenario della partecipazione dell'Italia alla Prima Guerra Mondiale, sarebbe cosa interessante e bella ricordare che anche molti Siciliani furono chiamati a difendere e ad allargare i confini del Regno d'Italia, nato da pochi decenni.

Molti partirono per il fronte convinti dell'ideale della Patria e spinti dal senso del dovere; altri senza la piena coscienza delle motivazioni di quel conflitto.

Tutti, destinati ad enormi sofferenze e spesso alla morte, andarono verso terre e climi che non conoscevano, agli ordini e in compagnia di uomini con cui, per lo più, non avevano ancora in comune nemmeno la lingua.

Non sempre e non da tutti il loro sacrificio viene riconosciuto. Per questo ho pensato di raccogliere le testimonianze di quanti ancora ricordano qualche racconto di nonni.

Chi volesse aderire a questa iniziativa o ricevere informazioni può scrivere su facebook (antonina.orlando.315@facebook.com ) o più sotto, nello spazio riservato ai commenti.

Spero, comunque, in una condivisione. GRAZIE.

© Antonina Orlando 06 Maggio 2015

PANINI DI CENA MESSINESI

PANI CENA MANTANOUsi e tradizioni del Messinese.
Il pane di cui si cibarono gli apostoli prima della morte di Cristo:
"PANI 'I CENA"
chiamati anche: “Panini ca ciciulena” ovvero "Panini con i semi di sesamo.

 

 

Ingredienti (Ricetta per circa dieci panini):

Impasto:

  • 250 g di farina 00,

  • 250 g di farina manitoba,

  • 50 g di zucchero,

  • 100 g di burro,

  • 1 uovo,

  • circa 200 ml di acqua,

  • 1 cubetto di lievito di birra,

  • 2 chiodi di garofano ridotti in polvere,

  • 1 pizzico di cannella,

  • 10 g di sale.

Prima di infornare:

  • 2 cucchiai di latte,

  • 1 uovo,

  • semi di sesamo.

 

Procedimento:

 

  • Mescolare la farina di manitoba e la farina 00,

  • fare “la fontana” e versarvi al centro lo zucchero, il sale,il burro, la polvere di chiodi di garofano, la cannella in polvere e l’uovo,

  • amalgamare il tutto;

  • unire, dopo, il lievito sciolto nell’acqua tiepida.

  • Impastare (aggiungendo, se necessario, ancora acqua tiepida), fino ad ottenere un impasto morbido;

  • coprire l’impasto e farlo lievitare fino a quando avrà raddoppiato il suo volume (un’ora e trenta circa).

  • Trascorso il tempo di riposo, riprendere la pasta, lavorarla e formare dei panini.

  • Farvi delle piccole incisioni, lucidarli con l’uovo e il latte sbattuti insieme, e cospargerli di semi di sesamo; 

  • adagiarli su una teglia infarinata, ben distanziati fra loro;

  • lasciarli lievitare, coperti, per altri 20/30 minuti.

  • intanto riscaldare il forno a 220°C.

  • Trascorso il secondo tempo di riposo, infornare i panini per 10/15 minuti: fino a quando, cioè, si presenteranno lucidi e dorati in superficie.

Lasciarli raffreddare fuori dal forno.

 

 

© Antonina Orlando 02 Aprile 2015


 

 

 

 

MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA

stelle e coriandoli  MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA

 Pagliacci coloratissimi con simpatici nasi rossi e con parrucche variopinte, famose mascherine e tanti altri allegri personaggi, animavano festosamente i negozi ricchi di coriandoli, cappellini e stelle filanti,  calamitando occhi affascinati.

  Qualche mamma si affrettava a completare il lavoro prima dell’ultima domenica di carnevale e nell’originalità della creazione trasferiva emozioni, colori, sfumature e figure del suo spirito. I soggetti scelti, sia nuovi che tradizionali, prima di essere realizzati, attraversavano le maglie della sua immaginazione e della fantasia dei figli.

 Anche Anna realizzava ogni anno personalmente i costumi dei suoi bimbi che, curiosi, la seguivano nel lavoro, ponendole mille domande. L’Estate, la Primavera, il Signor Bonaventura, la Fatina dai capelli turchini, i maghetti, l’omino di neve, avevano tutti un tocco personale e originale e, soprattutto, non si trovavano in nessun negozio e su nessuna rivista.

Mentre cuciva, la giovane mamma con il pensiero andava spesso indietro nel tempo e ricordava quando, bambina e piena di entusiasmo, era lei a mascherarsi …

 Da una cassapanca di legno massiccio e antico, con il coperchio bombato, tirava fuori abiti che facevano rivivere l’atmosfera di un’epoca antica. Un tempo in cui le donne andavano con i vestiti lunghi e con i capelli raccolti sulla nuca o sciolti e inanellati sulle spalle. Si muovevano lente, con un fascino ormai inusuale, dentro le lunghe e larghe gonne fruscianti.

Assieme alle cugine, lei frugava nello scrigno, tirandone fuori camicie da notte, gonne, vestaglie e calze finemente lavorate a maglia, come un merletto. Sangalli, trine e nastrini facevano bella mostra di sé sul bianco delle tele di cotone o di lino, impreziosendo con minuti trafori poliedrici colli, polsini e corpetti.

Ognuna delle bambine sceglieva un capo che, con un po’ di fantasia, potesse adattarsi alla sua figura e ai suoi gusti. Capelli pettinati opportunamente (Anna li aveva lunghi e ne otteneva acconciature e code invidiabili), un po’ di trucco con i rossetti delle mamme, un velo di cipria, una manciata di coriandoli ed ecco la trasformazione.

 Andavano, poi, in giro per le case di parenti e conoscenti, felici di non essere mai riconosciute o di venire riconosciute a fatica.

La gioia era tanto maggiore quanto più le mascherine credevano di non essere state scoperte ed era grandissima per chi era convinta di essere riuscita a mantenere l’anonimato più a lungo delle altre.

 Oltre a questo modo di “vestirsi da carnevale”, ve ne erano altri mille e tutti prevedevano un tocco di creatività.

Anna amava vestirsi da contadinella con una gonna di cotone, arricciata in vita, vaporosa, e intessuta con fiori colorati e con rose rosse sul bianco dello sfondo, macchiato qua e là dal verde degli steli e delle foglioline. Il giro vita della gonna tratteneva garbatamente una morbida, candida camicia; le sue maniche venivano fuori da un gilè di velluto liscio, nerissimo, su cui poggiava il colletto della stessa camicia che aveva la prima abbottonatura slacciata. Sui capelli era posato un cerchietto verde con cinque roselline rosse, realizzato dalla stessa Anna con l’aiuto di una zia che aveva il compito di aiutare le bimbe a realizzare o a completare con gli accessori idonei il proprio vestitino. Tutte si esercitavano a costruire cerchietti con fil di ferro ricoperto da carta crespa verde e roselline, anch’esse di carta crespa, rossa, ritagliata e lavorata opportunamente, in modo da formare dei petali, da comporre in boccioli per il cerchietto.

Dalle loro mani usciva un’infinita varietà di cappellini, mascherine e bacchette magiche, mentre, tra risate e scherzi, trombette, ritagli di giornali, carta colorata, coriandoli e stelle filanti inondavano il pavimento delle stanze lasciate a disposizione per i “lavori”.

 All’ora del pranzo, quando dalla cucina arrivava l’invito a lavarsi le mani e a sedersi a tavola, Anna, Agnese, Luisa e Marta lasciavano tutto, si preparavano e si sedevano ai propri posti, accanto agli altri cugini, attorno al tavolo più piccolo, perché quello più grande era riservato agli adulti

Il buon profumo del sugo di maiale, sparso già per ogni dove, impregnava deliziosamente l’aria e invitava gioiosamente alla festa, mentre, secondo il solito rito, venivano conditi i “maccheroni di casa”, preparati il giorno precedente con l’ausilio di tutti:

la mamma impastava; poi, dalla pasta formava le “corde”, da cui le bambine più piccole ricavavano bastoncini pressoché uguali fra loro per lunghezza e diametro; le bambine più grandi lavoravano i bastoncini con il ferro, ottenendone i maccheroni. Gli uomini stendevano la pasta ad asciugare. Alla fine si faceva il maccherone grosso. Chi se lo fosse ritrovato nel piatto, avrebbe suscitato le risate generali e sarebbe stato apostrofato come il Carnevale dell’anno.

Maccheroni, carne di maiale e patatine fritte, insalata e salsiccia caratterizzavano il pranzo di quel giorno. Come dessert, frutta,  le inevitabili frittelle farcite di ricotta o cioccolato, pignolata e cannoli. Discorsi, scherzi e risate coronavano e arricchivano la mensa.

beppe nappa 2  Nel piccolo paese di Anna le tradizioni affondavano le loro radici nella notte dei tempi e, pur alquanto rivisitate, si mantengono ancora oggi fra le nuove generazioni. Gli anziani continuano a raccontare la storia della maschera locale, Beppe Nappa, e delle loro tradizioni

 Anna stava completando l’ultimo costumino, quando il suo pensiero andò ad altri carnevali, più o meno ricchi e famosi, di altre città.

Si ritrovò così in una domenica pomeriggio di qualche anno prima. Cercava di spingere il passeggino del suo bimbo in mezzo ad una folla immensa, colorata e festante. Non era sola, ma nessuno fra quanti l’accompagnavano riusciva a trovare una calle, dove poter camminare più comodamente.

PUPI VENEZIA artistica  Il raduno di gente a Venezia in un’occasione come quella di carnevale è cosa risaputa, ma quella volta non erano previste le enormi dimensioni del fenomeno. Lo spettacolo su dai ponti era straordinario e sapeva di surreale.

Una marea umana riempiva calli, ponti, campi e campielli. Fra una maschera e l’altra non c’era spazio. Nessuno sarebbe potuto cadere, nemmeno per un eventuale malore; molti, infatti, l’avrebbero sorretto involontariamente con la prossimità del proprio corpo. Onde caleidoscopiche oscillavano lentamente, senza sosta, mentre un mormorio indistinto si librava nel cielo, spargendosi in ogni dove. Non si andava dove si voleva, si andava dove la massa spingeva e …, immerso in quella folla così inaspettatamente enorme, il povero passeggino pensava di potersi fare strada! Non solo, pensava addirittura di poter andare su e giù per ponti e ponticelli, verso la sua meta!

“Bisogna esser mati!” – urlava chi vedeva a rischio l’incolumità del bimbo – “chi podeva saver …!” controbatteva qualcuno dei compagni d’avventura di Anna, che intanto cercava una soluzione.

All’improvviso, senza saper come, il percorso fu libero e si trovò tranquilla e sicura al riparo di un muro di contenimento: erano giovani dal corpo robusto che, pronti e generosi, avevano arginato la folla, mentre, con le forti braccia piegate ad arco, poggiando le mani al muro lungo il quale correva la parte terminale del ponte, formavano una galleria. Anna passò in fretta, ma, quando si girò per un nuovo segno di gratitudine, non vide più nessuno. Così come in silenzio e determinati erano giunti, allo stesso modo, senza farsi notare, i giovani sparvero tra la gente, senza che nessuno sapesse chi fossero o potesse salutarli .

BATMAN ESTATE CLOWN artistica  Ormai il lavoro era completato e i vestitini furono pronti in tempo. Erano davvero belli: Estate, Batman e il pagliaccetto.

© Antonina Orlando 16 Febbraio 2015

 

MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA

 

 

Incontri d’autore: ALBINO AGUS

Lo scrittore ALBINO AGUS

e i suoi due libri

 

Il tralcio staccato

e

Is contusu de s’arrollieddu

(I racconti del crocchio)

 

 

          2 Il 25 Gennaio scorso, in via Reiss Romoli 45, ha avuto luogo “Incontri d’autore”, manifestazione culturale organizzata e realizzata dall’Associazione “Nosu Impari” di Torino.

 

           Luisa Pisano, Marcello Pisano e Rebecca Melis hanno presentato i due ultimi libri di Albino Agus: “Il tralcio staccato” e “I racconti del crocchio”, alcuni brani dei quali sono stati letti da Rebecca Melis.

Il  pubblico è stato subito coinvolto e molti si sono emozionati ricordando, attraverso la parola dello scrittore e dei conduttori, momenti di esperienze trascorse. Il commento di alcuni passi salienti di entrambe le opere, infatti, ha dato modo di rievocare tradizioni, stili di vita, chiaroscuri e interrogativi di una terra sempre viva nel cuore dei figli lontani, perché bella e ben radicata nella sua storia e nella sua identità.

           “Io,” – dice lo scrittore – “come chi va via, mi sono innamorato della Sardegna, quando ero fuori dalla Sardegna”; “Chi è ancora in Sardegna e va a lavorare nei campi con la zappa che sprigiona scintille sulla pietra, vede il mare come il muro di una prigione. La nave che passa è la speranza di un’occasione”, ma dopo la partenza si riconosce la bellezza della propria terra, dove le nuove abitudini acquisite impediscono di ritornare a vivere.

           Ricordando alcuni degli episodi della sua vita, svoltisi a Villaputzu ed esposti nell’autobiografia “Il tralcio staccato”, Agus ha lasciato spazio a riflessioni e dibattiti su problematiche sempre attuali:

 

  • La condizione della donna “serva”, descritta nell’infanzia tormentata di una bambina rimasta orfana a undici anni, diventata di colpo la mamma dei fratelli e  responsabile dell’organizzazione della casa; sempre attenta a non permettersi un attimo di distrazione e di riposo, per non incorrere nelle ire del padre. Un padre, capace di portare via, ad insaputa della figlia, il gruzzoletto di soldi che lei, scegliendo di lavorare in casa d’altri, faticosamente aveva potuto mettere da parte per la “dote”. Il “Padre padrone” di Gavino Ledda, ancora presente, purtroppo, in molte famiglie, e non solo sarde – ha ricordato qualcuno del pubblico.
  • Il bambino del romanzo (alias Albino), fortemente desideroso di qualche manifestazione d’affetto da parte della mamma, esacerbata dalla durezza della vita e completamente assorbita dai lavori quotidiani, come molti genitori, trascinati lontano dai figli dai ritmi e dalle esigenze della società “progredita”.
  • L’educazione spartana e inflessibile impartita ai bambini, confrontata con il permissivismo esagerato che oggi talora si riscontra. Questo non è sempre frutto di scelte pedagogiche, ma, molte volte, di necessità contingenti, legate alle problematiche degli adulti.
  • Il perdono. “Nel perdono c’è una pace interiore che non si può neanche descrivere … una ricchezza interna che non si può spiegare … non è facile”, dice Agus. Il rancore che tormenta l’animo del giovane figlio, invano desideroso di segni tangibili d’affetto, si tramuta col tempo nel dolce e rasserenante perdono dell’adulto che ha riconosciuto l’amore naturale e profondo nel cuore della madre, plasmata dalla mentalità del paese e dal vissuto doloroso.

           Vita rassicurante e appagante quella emersa dalla presentazione de “I racconti del crocchio”.

Il pubblico ha avuto modo di apprezzare o di rivivere i momenti di socialità dei “crocchi”, in cui spontaneamente per strada, in piazza, sulla soglia di casa, si riunivano i compaesani. Nei crocchi ci si raccontava di sé, degli altri, dei fatti del paese, ci si lamentava, si rideva e si scherzava, senza conoscere gli spasmi di una società frenetica, caratterizzata da individui soli fra potenti strumenti di comunicazione virtuale e social networks.

“Che fine ha fatto il crocchio?”

“Il crocchio è morto!”

“E chi l’ha ucciso!”

“La televisione!”

“La televisione?”

“Sì comare, la televisione ha ucciso il crocchio!”

 

Questo l’incipit del racconto “Il crocchio”.

 

Altro notevole tema dell’incontro: il dialetto.

           “Quando io ero bambino” – dice Agus – “si andava a scuola per imparare l’italiano, come oggi si va a scuola per imparare le lingue”.

Ormai, invece, si tende a non parlare più in dialetto. Per lo scrittore, il dialetto è la carta di identità di un popolo e ha il valore affettivo e identitario proprio della lingua con cui ognuno di noi impara a relazionarsi con l’altro. Perciò, egli scrive I racconti del crocchio in “serrabese”, il suo dialetto caratteristico derivato dall’arabo, avendo l’avvertenza, però, di renderli accessibili a qualsiasi lettore, con il corredo della traduzione a fronte.

 

           A conclusione dell’incontro, interessante e stimolante, Luisa Pisano ha ringraziato Albino Agus. Un pensiero riconoscente è stato rivolto, inoltre, a tutti gli scrittori che hanno il merito di arricchire lo spirito di chi li legge, anche con il racconto di storie personali. In esse, infatti, il lettore ritrova spesso qualche aspetto del proprio vissuto.

 

© Antonina Orlando  27 Gennaio 2015

GIORNI DI NATALE

GIORNI DI NATALE senza didasalia

Già da qualche settimana si percepiva sempre più intensa l’atmosfera incantata del Natale, ma in quella mattina fredda e luminosa dell’otto Dicembre, ricorrenza dell’Immacolata, essa assumeva un valore particolare.         

“Oggi anche giù nell’inferno c’è pace!” – diceva la nonna ad Anna, che aveva da poco litigato con la cuginetta e che, come lei, era molto arrabbiata.

Entrambe, infatti, si erano lasciate convinte della colpevolezza dell’altra e decise a difendere le proprie ragioni.

Piagnucolando, Anna era entrata in cucina, in cerca del conforto dell’anziana donna, e l’aveva trovata intenta ai preparativi per il brodo.

La pulizia della gallina, immersa velocemente e ad intervalli irregolari nell’acqua bollente, l’aveva sempre incuriosita, inducendola a saggiare la debole resistenza delle sue penne umide e calde e a confrontarla con quella che ne ostacolava l’estrazione, quando invece erano asciutte o ormai fredde.

Cos’è successo? – Le chiese la nonna.

Lei raccontò l’accaduto, imbronciata dapprima, ma poi sempre più distesa man mano che le parole fluivano fiduciose, incontrandosi con quelle calme e persuasive dell’interlocutrice, la quale, pur parlando, seguitava tranquilla a svolgere le sue faccende.

In breve anche le piccole mani di Anna, rimaste chiuse fino a quel momento, si andarono sciogliendo dalla morsa che le imprigionava assieme alle braccia e a tutto il resto del corpo.

Istintivamente cominciò allora a seguire i preparativi e desiderò fare qualcosa; tuttavia, un che di aristocratica chiusura al mondo le impediva ancora di agire apertamente.

Si avvicinò alla gallina con molta lentezza, sicura che così il suo gesto passasse inosservato, e, allungando timidamente la mano, quasi per non farsi vedere, prese a staccare qualche penna; poi … di sfuggita fece veloci domande su come sarebbe stata cucinata; poi … aiutò a preparare la salsiccia, spingendo la carne condita nel budello raccolto intorno al cannello dell’imbuto e pungendo qua e là le bollicine d’aria che si formavano … e poi … poi non ricordò più niente di quanto poco prima l’aveva afflitta tanto, e corse ad incontrare gli altri bimbi per continuare a giocare.

La festa dell’Immacolata era la prima delle ricorrenze natalizie festeggiate solennemente in famiglia.

Alla S. Messa del mattino seguivano il pranzo e la cena con tutti i parenti. Dopo cena iniziavano i giochi di società: sette e mezzo, il mercante in fiera e l’immancabile tombola, di gran lunga la preferita.

Prepararsi a giocare a tombola era un rito.

Il vecchio sacchetto verde era già pronto in qualche angolo della sala sotto la custodia dello zio Antonio.

Era lui che dava inizio al gioco, lasciando che in seguito continuassero gli altri.

Egli lo slacciava con meticolosità sotto gli occhi impazienti dei bimbi e nella tranquilla attesa degli adulti; ne tirava fuori con gesti precisi e sempre uguali il cartellone ripiegato che con cura posava sul tavolo, allargava e metteva a posto; ne appiattiva infine le pieghe, passandovi sopra la mano con delicatezza e precisione, per non danneggiare la sua antichità.

Era quindi la volta delle cartelle: esse, tutte insieme, venivano consegnate agli astanti che sceglievano quella o quelle con cui giocare, in base a criteri sempre nuovi o mantenendosi fedeli alle preferenze degli anni passati: per tentare la fortuna percorrendo nuove strade nel primo caso; temendo il nuovo e fidandosi del vecchio per una sorta di scaramanzia, nel secondo.

I giocatori più piccoli che avevano difficoltà a leggere e che dovevano essere aiutati dai più grandi, prendevano solo una cartella; i più grandicelli anche due.

Dopo avere scelto, ognuno consegnava la somma di denaro corrispondente al numero delle cartelle prese e la cifra raggiunta veniva suddivisa in modo crescente fra i vari premi: ambo, terna, quaterna, cinquina e tombolone.

Successivamente iniziava l’estrazione: l’entità di ogni vincita era irrisoria, ma i bimbi la ritenevano cospicua ed erano eccitati dall’idea di poter vincere tanti soldini da utilizzare nei giochi successivi.

Da quel momento nessuno doveva più muoversi o doveva farlo con molta circospezione, per non fare rotolare, nel disappunto generale, fagioli, lupini o lenticchie che sulla cartella coprivano il numero estratto.

Quando tutti erano pronti e il silenzio si era diffuso intorno, si sentiva rimestare nel sacchetto, mentre i tondini di legno chiaro con le cifre dipinte di nero, risuonavano, urtandosi l’un l’altro.

Dopo qualche istante, la voce alta e chiara dell’animatore, con la sua caratteristica erre francese, leggeva distintamente il numero, poggiando dapprima il tondino sul tavolo e, subito dopo, sul cartellone.

A tombola si giocava lentamente, assaporando l’attesa dell’estrazione successiva e sospesi tra speranza e preoccupazione, a seconda che si guardasse la propria o l’altrui cartella. Il silenzio profondo era interrotto solo dalla lettura del numero, ogni tanto commentato da qualche simpatica battuta, dai mal trattenuti gridolini infantili, ricchi di attesa e di timore, o dall’esclamazione festante che all’improvviso annunciava la vincita.

In quasi tutte le serate natalizie i parenti si incontravano per giocare insieme e spesso a loro si univano amici.

Anna adorava quelle serate in quella stanza tanto grande, ma calda e profumata dalla resina dell’albero verde, ricco di palline colorate, luci e fili argentati, dal muschio del Presepe e dalle scorzette d’arancia essiccate e poste sulla carbonella accesa nel braciere.

Era davvero uno spettacolo bellissimo e indimenticabile: un tavolo enorme ricoperto da un bel tappeto a quadri blu, delimitati da linee rosse; seduti attorno ad esso i parenti e gli amici più cari, per divertirsi sereni.

Lo sfavillio degli addobbi, sparsi in tutta la stanza e pendenti dal lampadario, impreziosiva la scena; la sacralità, invece, era materialmente simboleggiata dal Presepe.       

In casa di Anna, come in molte altre case, il Presepe si allestiva l’otto Dicembre.

L’attesa dei bambini era spasmodica: specie i più piccoli non finivano di chiedere:

“Quando facciamo il Presepe?”

“Quando cominciamo?”

  FinMIRTILLOalmente ecco… la grande scatola con tutto il necessario arrivava. Una volta aperta, il caratteristico odore di chiuso, della cartapesta e della cera delle candeline si spargeva tutt’intorno; ad esso si contrapponeva il profumo del muschio e dei rami di mirto appena raccolti.

A questo punto la scena  cominciava gradatamente a comporsi:

le montagne di pietra scura, tappezzate qua e là di muschio, si formavano sullo sfondo, nell’angolo a sinistra, sopra il praticello; fra le montagne o in piano, comparivano laghetti e ruscelli d’argento, circondati da pecorelle, cani e pastori; da un’altra parte piccoli ponti di legno colorato, appena sistemati, scavalcavano corsi d’acqua, per permettere ai viandanti di raggiungere la riva opposta.

Accanto allo zio, mentre la nonna guardava dalla sua poltrona, Anna spargeva pietruzze bianche lungo i sentieri, e sistemava anatre e oche sulla superficie dei laghetti.

Le palme erano ormai in mezzo al deserto, là dove polle d’acqua formavano piccole oasi; le casette si abbarbicavano sulle alture; attorno e dentro di esse trovavano posto le varie figure dei pastorelli 1.

Non importava che ambienti e personaggi rispettassero riferimenti cronologici o storico – geografici precisi; quello che contava era rappresentare la terra e tutta la gente di ogni tempo e di ogni luogo nell’attesa dell’amore, della giustizia … della salvezza.

    E invero il presepe è l’istantanea in cui convivono epoche, regioni, paesaggi e climi diversi. Esso rappresenta tutta l’umanità con le sue aspirazioni. Da quasi un millennio, pur in fogge diverse, tutte le classi sociali, dai re agli artigiani, dai pastori ai contadini e ai pescivendoli, vi sono rappresentate. Presepi popolari e artistici, viventi o iconografici, si sono susseguiti per secoli fino ai nostri giorni. In legno o terracotta, sughero o marmo, lava o corallo; semplici o con innovazioni tecnologiche per far funzionare fontane, mulini e cascate, spesso sono diventati capolavori, custoditi in Chiese e musei, simbolo di credo religioso o documenti dei costumi degli uomini.

Concentrata nella  sua occupazione, Anna proseguiva il lavoro con entusiasmo crescente e ascoltava:

“Guarda, Anna, qui c’è il deserto con i cammelli e i dromedari; da questa parte prati, fiumi e ruscelli; più in fondo montagne piene di neve.

Gesù nasce nel caldo dei cuori ricchi di speranza, ma anche nel freddo e nella neve di chi purtroppo l’ha perduta”. 

   Sulle palme Anna andava posando ovatta bianca, per simulare fiocchi di neve, e imbiancava le rive dei corsi d’acqua, spargendo farina. Sull’erba faceva scintillare la brina con polverina argentata, mentre nella casette, sull’ aia o nel cortile, i pastorelli lavoravano alacremente.

“Il venticinque Dicembre, nel giorno di Natale, adageremo il piccolo Gesù nella mangiatoia – il bue e l’asinello sono già lì, pronti a scaldarlo – e poseremo sulla capanna la stella cometa, perché, dopo aver guidato il cammino dei pellegrini, essa indicherà loro la meta raggiunta.”

«Nonna, guarda, questa signora porta la biancheria nella cesta!»

«La porta al fiume per lavarla: regalerà panni puliti al povero bambinello!»

«Nonna, c’è il pescatore!»

« Venderà i suoi pesci, ma ne regalerà anche alla povera Maria, che è senza cibo!»

« E il pastore?”

“Porterà l’agnellino alla grotta!»

«E questi re a cavallo?»

«Sono i Re Magi che recano in dono oro, incenso e mirra».

 Molti rami verdi ombreggiavano la piccola capanna incuneata fra le montagne, e le luci erano pronte dentro le case e lungo le strade.

  Il lavoro era ormai finito. Il perimetro della scena era contornato da mille candeline colorate, che sarebbero state accese durante la Novena, quando lo zampognaro sarebbe venuto a suonare in casa. Tutti i cuginetti allora sarebbero corsi ad ascoltarlo, seguendolo poi su e giù per le scale, per riascoltarlo ancora presso i vicini.

Nelle estati che precedevano le festività natalizie, alla fiera del paese, Anna chiedeva regolarmente in regalo ai suoi genitori una piccola ciaramedda giocattolo, con tanto di canne e palloncino.

Tutte le volte che lo zampognaro concludeva la sua Novena, lei lo pregava di suonare anche con la sua piccola zampogna.

Che bel suono ne traeva! Molto meglio di quanto non riuscisse a lei!

Ma si sa: lui era uno zampognaro… lei no!

Le abitudini della Vigilia e del giorno di Natale tenevano conto di prescrizioni religiose e tradizioni popolari. Presto anche Anna imparò a gustare la semplicità dei pasti privi di carne e la bontà della cena della Vigilia: fili sottili di pasta conditi con salsa di pomodoro cucinata con l’acciuga e spolverati con mollichina tostata; frittura calda di cavolfiore, finocchi e carciofi con e senza pastella; tocchetti di baccalà e anguilla anch’essi fritti e gustati caldissimi. E poi frutta secca, arance dal gusto vaniglia, delizia dei bambini, arance amare, mandarini e profumatissimo melone latino.

La sera stessa, sul tardi, la bimba seguiva gli adulti in Chiesa, per la S. Messa, quella della Notte di Natale.

Anche per il pranzo di quel giorno non sarebbe mancato il brodo, che sin dai tempi antichi si usava preparare per le puerpere, come Maria, perché ne ricevessero forza e nutrimento. Lo si serviva sia come primo piatto con  pastina piccolissima, che per secondo con dentro pallottoline di carne, completamente ricoperte dal Trusceddu, crema a base di uova, ricotta e parmigiano. A seguire ancora  cesti di frutta fresca, avvolti dal profumo di arance vaniglia e di arance amare; mentre, in quelli della frutta secca, noci, mandorle, nocciole e arachidi invitavano sempre i commensali a gustarle da sole o assieme a datteri e fichi secchi dolcissimi, preparati in casa nei mesi precedenti. Non sarebbero certo mancate le formine di marmellata di cotogne, fatta in casa, e la mostarda dolce, ottenuta dalla cottura del mosto addolcito, guarnita con nocciole tostate e tritate e preparata al tempo della vendemmia.

Per concludere il dolce mai assente, il riso nero 2, accompagnato da altri dolci tipici.           

 DavSTELLE NATALE - CANDELAvero, in quelle ore la tradizione regnava sovrana, interpretando e rielaborando scene e vicende della venuta al mondo di Gesù, il bambinello sceso in terra, per difendere i valori più alti dell’Umanità … e lungo le strade di molti paesini quella stessa tradizione popolare accendeva grandi falò per riscaldare il bimbo povero  e importante che stava per arrivare.

Nessuno, cresciuto in quella grande casa e vissuto in quei luoghi, avrebbe mai dimenticato le sensazioni e gli insegnamenti di quei giorni; avrebbe anzi desiderato condividerli con altri nella sua vita futura.

Le immagini del video sono quelle di un Presepe tradizionale napoletano, con le caratteristiche architetture e la rappresentazione delle attività quotidiane.

Le statuine provengono dalle celebri botteghe di via San Gregorio Armeno, a Napoli, come pure il sughero che è il principale supporto della costruzione. Alcuni dettagli, come le tegole, si trovano in commercio; altri, come la frutta, i pesci, i formaggi e i salumi, realizzati in cera e poi dipinti nel corso di parecchi mesi di lavoro, sono frutto delle abili mani dell’Ing. Gino D’Emiliano, ideatore e costruttore del Presepe stesso.

© Antonina Orlando, 20 – 12 – 2014

ultima modifica 18 – 12 – 2017

RINGRAZIAMENTI

Mantano ringrazia l’Ing. Gino D’Emiliano per aver messo gentilmente a disposizione le immagini del suo Presepe

1In Sicilia tutte le figure del presepe, tranne la Madonna, San Giuseppe e Gesù, sono convenzionalmente chiamate pastori o pastureddi. torna su

2 – Riso cucinato con cioccolato e altri ingredienti, in grado di dargli un colore scuro e un gusto caratteristico. torna su

GIORNI DI NATALE

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RECITAZIONE, MUSICHE E DANZE POPOLARI SARDE

RICORDANDO LA SARDEGNASabato 29 Novembre 2014, al Teatro Isabella della Circoscrizione V di Torino, l’Associazione Nosu Impari di Torino  ha presentato la VI edizione di "Ricordando la Sardegna".

E' stata una serata ricca di musica, di balli tradizionali, di belle poesie e di brevi e piacevoli rappresentazioni teatrali.


All'apertura dello spettacolo, condotto da Quintomoro (Gianluca Cotza), gli ospiti sono stati salutati con il tradizionale Ballo dell'Accoglienza.

 

 

Hanno fatto seguito, in un armonico intercalarsi, le canzoni di Quintomoro e Laura Cotza, che hanno rievocato le bellezze della terra sarda, sempre nel cuore degli emigrati, e le belle poesie di Albino Agus, Luisa Pisano e Gianluca Cotza.

Ecco un brano del componimento di Vincenzo Pisanu, nella recitazione di Quintomoro in sardo e di Pia Deidda, in italiano.

 

 

Il Gruppo di ballo «NOSU IMPARI» si è esibito ancora nel corso della serata, creando allegri e simpatici intermezzi  musicali, come  il Ballo della vedova che, spiega Quintomoro, "mette in danza la storia di una vedova la quale,essendo rimasta sola, vuole provare a rifarsi una vita … [un tempo] il ballo era il modo per conoscere i nuovi aspiranti fidanzati".

 

 

A titolo esemplificativo degli interessanti lavori teatrali, tutti degni degli applausi che hanno giustamente ricevuto, si propone qui un brevissimo saggio de La bandiera del re. Il lavoro teatrale, curato da Luisa Pisano, presidente dell'associazione, nonchè autrice di poesie e ballerina del gruppo folk, è stato tratto dall'omonimo racconto della scrittrice Pia Deidda.
 

 

La serata si è conclusa tra applausi e manifestazioni di generale soddisfazione.

 

© Antonina Orlando, 05 – 12 – 2014

 

 

CICLOPI E LESTRIGONI

ACITREZZA-2-MODIFICATA-MANT

I Faraglioni di Acitrezza!

 

Si dice che furono scagliati dal ciclope  Polifemo contro Ulisse in fuga…

voleva ucciderlo … assieme ai suoi compagni … per vendetta …

 

 
   RAGAZZINA 1   Ciclope?

RAGAZZINA 3…cosa vuol dire ciclope? 

 

Cicl – ope vuol dire occhio rotondo.

E’ una parola formata da due parole greche:

kýklos,ou = cerchio + óps, ōpós = occhio1

Come erano i ciclopi?RAGAZZINA 2 +RAGAZZINO 1

Come vivevano?RAGAZZINA 2 +RAGAZZINO 1

CICLOPE bustoI CICLOPI erano esseri giganteschi, con un occhio solo in mezzo alla fronte. Erano  terribilmente forti.

Vivevano senza leggi e non coltivavano la terra, perché essa produceva spontaneamente e in gran quantità cereali, viti , olivi e alberi da frutto.

Erano dediti alla pastorizia e vivevano isolati gli uni dagli altri, in caverne.

Ulisse li descrive nel IX libro dell’Odissea, quando racconta ad Alcinoo del suo arrivo nella terra delle Capre e in quella dei Ciclopi.

LESTRIGONI-E-CICLOPI-1I Ciclopi – egli dice ad Alcinoo che lo ospita –  non hanno leggi e vivono di pastorizia e degli abbondanti frutti che la terra dona loro spontaneamente.

Isolati uno dall’altro, abitano sulle cime dei monti o dentro le caverne (Od., IX, 134 – 147).

Di fronte all’isola dei Ciclopi vi è un’isoletta, su cui si trovano moltissime capre selvatiche, che pascolano tranquille, senza essere disturbate dalla presenza di alcun essere umano, né allevatore, né agricoltore, né cacciatore.UVA COMPOSITA 2

Il luogo, accogliente e fertile, offre buoni approdi naturali.

Lì sbarcarono di notte Ulisse e i suoi compagni (Od., IX, 148 – 176).

I CICLOPI, assieme ai LESTRIGONI, secondo la leggenda furono fra i primi abitanti della SICILIA, ma vivevano anche in altre parti del Mediterraneo.

Essi sono menzionati nelle opere di molti autori dell’antichità, sia scrittori di storia che poeti.

NETTUNOPer l’antico poeta greco ESIODO, erano figli di GAIA e di URANO (v. Teogonia).

Per OMERO, invece, i loro genitori erano altre divinità.

Per esempio, POLIFEMO era figlio di POSEIDONE/NETTUNO, dio del mare, e di TOOSA, ninfa marina.

 

 

RAGAZZINA 3 Così, i ciclopi vivevano in Sicilia!

                                     Quando?                                RAGAZZINO 2

RAGAZZINA 1                                    Dove?

                                                        Erano soli?   RAGAZZINA 2 +RAGAZZINO 1

I ciclopi della tradizione classica, quelli di  Omero, Teocrito, Callimaco, Euripide, Ovidio, vivevano in Sicilia.

Potevano trovarsi sulla terra (per esempio, intorno all’odierna Acitrezza),  o dentro i vulcani.

Dalle viscere dell'Etna facevano  tremare la terra ed eruttavano lapilli, fuoco e lava; all'interno dello Stromboli e di Vulcano forgiavano armi per divinità ed eroi.

Altre ipotesi pongono le loro sedi a Milazzo, dove giunse Ulisse.

A Milazzo, infatti, è ambientato l’episodio dei sacri armenti del Sole e oggi, su quel tratto di costa siciliana, archeologi e geologi stanno svolgendo ricerche per identificare i siti dei racconti mitologici.

Per esempio: dove si trovava l'Artemisio con il Tempio di Diana Facellina, nei cui pressi pascolavano quegli armenti, uccisi e mangiati dai compagni di Ulisse, nonostante la promessa di non toccarli?

Si cerca di identificare anche i vari luoghi di approdo lungo la costa milazzese, utilizzati successivamente dai Romani (un solo Nàuloco o più Nàulochi?).

La famosa battaglia del Nàuloco (quale Nàuloco?), combattuta fra Ottaviano e Sesto Pompeo nel 36 a. C., ci viene raccontata anche da Appiano, uno storico greco del II secolo d. C. Egli, fra l’altro, ci dice che Ottaviano occupa anche l’Artemisio, presso Milazzo. Ci dice, inoltre, che l’Artemisio è una piccola cittadina nella quale dicono che vi fossero le vacche del Sole e che vi avvenisse il sonno di Odisseo.2

Nota a tutti è l’importanza dei collegamenti fra Milazzo e le isole Eolie e la posizione strategica di tali luoghi geografici. Nelle manovre della battaglia del Nàuloco, le Isole Eolie, assieme alla costa eEOLIE da Tonnarella all’entroterra milazzese, rivestirono un ruolo importantissimo.

Ottaviano con l’intera sua flotta si recò a Stromboli e, poi, lasciate le operazioni militari di quella zona ad Agrippa, si spostò verso Taormina per conquistarla, mentre Agrippa da Stromboli andava alla conquista di Hiera (Vulcano) 3 .

Alle isole Eolie approdò anche Odisseo, subito dopo la partenza dall’isola delle Capre… Su  una di quelle isole (forse Stromboli) viveva Eolo, il dio dei venti.eolie da alberi milazzo sfumata

Leggendo i versi che descrivono il soggiorno dell'eroe presso la divinità, si può avere un'idea dei valori dell'ospitalità mediterranea: cordialità, affabilità, banchetti, particolari regali per il viaggio.

Purtroppo, il famoso otre con i venti sfavorevoli venne violato dai sospetti, dall’invidia e dalla gelosia dei compagni di Ulisse. Da qui la triste ripresa delle perigrinazioni (Od.,X, 1 – 99).

Se i Ciclopi volevano vivere senza lavorare, con i frutti che la terra offrivaSICILIA IN MEZZO A MARE 1 spontaneamente, quella raccontata fin qui era proprio la regione adatta:

«tutta la Sicilia era intesa come molto fertile e la Piana di Milazzo era davvero un paradiso. 

Quali i prodotti? Possiamo pensare certamente a cereali, ma anche a olive, ortaggi, frutta, e poi la vite, ed il legname dei boschi.»4. Inoltre, «La zona alle spalle della Piana, sulle colline e lungo il corso dei fiumi, era ricca di alberi di vario tipo.» 5

«Ovidio riporta la leggenda di Cerere che, alla ricerca della figlia Proserpina rapita dal dio degli Inferi, percorre i luoghi della Sicilia, tra cui

 

 – il Melan, lieti pascoli delle sacre vacche –»6.

 

Anche per identificare esattamente il sito del Mela, attualmente sono in corso ricerche e studi, come quelli del geologo Davide GORI: ci muoviamo, comunque, sempre nei pressi di Milazzo e fra Milazzo e Venetico/Spadafora.

RAGAZZINA 1E … Polifemo?   RAGAZZINA 2 +RAGAZZINO 1

    RAGAZZINA 3      Chi era il ciclope Polifemo?  RAGAZZINO 2

Polifemo era il ciclope violento e crudele, in cui si imbattè Ulisse durante una delle sue peggiori avventure.

Figlio del dio del mare NETTUNO e della ninfa TOOSA, secondo quanto ci racconta  una parte della tradizione, viveva in Sicilia, assieme ad altri Ciclopi, figli di altre divinità. Era superbo, violento e inospitale.

Oltre che nell'Odissea, egli è presente nelle opere di altri importanti scrittori di epoca classica.

Alcuni di essi lo ritraggono con lo stesso carattere brutale che si trova in Omero; altri ne fanno emergere qualche tratto più delicato, seppure condizionato dall’irrazionalità e dalla violenza complessiva; altri ancora lo presentano con più simpatia, in atteggiamento malinconico, incline a rifugiarsi nella poesia, panacea per i suoi mali d’amore.

Fra i primi ricordiamo

 – Euripide che gli dedica un dramma satiresco, «Il Ciclope»

 – Virgilio che, nell’Eneide, fa approdare Enea in Sicilia, terra dei Ciclopi (Eneide, 3. 655- 683).

Fra i secondi

 – Ovidio che nel XIII libro delle Metamorfosi lo presenta delicato e sensibile al pensiero della fanciulla amata, cui promette ricchezza e felicità, ma guidato da un carattere violento e possessivo, a causa del quale, nell’ira, ucciderà brutalmente Aci con un masso. il giovane subito dopo si trasforma nel fiume omonimo.

Fra gli autori del terzo gruppo, emergono

 – Teocrito il quale nell’ Idillio XI,  Il Ciclope, ci presenta il gigante con un carattere gentile.

 – e Callimaco il quale, nell’Inno ad Artemide, lo descrive mentre, assieme ad altri Ciclopi, lavora nella fucina di Efesto.

 

GREGGE Egli viveva di pastorizia e di agricoltura, ma era anche antropofago/cannibale e non rispettava i sacri doveri dell’ospitalità. Si comportò, infatti, in modo violento e crudele con gli ospiti, divorando sei compagni dell'eroe greco.

Ulisse, nel IX libro dell’Odissea, lo descrive ad Alcinoo.

E’ un uomo gigantesco – dice  – che vive da solo e agita nella mente pensieri malvagi. Non ha nessuna somiglianza con gli uomini: il suo aspetto è molto simile alla cima di una montagna immensa e isolata (Od., IX, 236 – 244).

RAGAZZINA 3In quali altri posti del Mediterraneo abitavano i ciclopi?

RAGAZZINA 1L’aspetto di questi mostri cela qualche verità?

Altri Ciclopi è probabile vivessero altrove, nel bacino del Mediterraneo …

Ma … procediamo con ordine!

Che Ciclopi e Lestrigoni fossero fra le prime genti ad abitare la Sicilia, ce lo tramandano racconti popolari, miti e leggende … e , come dice Francesco Renda 7 «… [i miti] assunti come racconti di storia, naturalmente hanno del romanzesco e del fantastico, e nondimeno anche loro contengono spesso frammenti di verità …».

Nel libro VI,2 della sua «Storia del Peloponneso», Tucidide scrive:

« Si dice che i più antichi ad abitare una parte del paese fossero i Lestrigoni e i Ciclopi, dei quali io non saprei dire né la stirpe né donde vennero né dove si ritirarono: …. »

Popoli preistorici, di loro si sa pochissimo, soprattutto dei Lestrigoni, giganti rozzi e antropofagi, simili ai Ciclopi, tranne che per l’occhio.

Ulisse ne fa la descrizione nel libro X dell’Odissea (vv. 100 – 172).

RAGAZZINA 3 Riguardo ai Ciclopi, quale potrebbe essere il frammento di verità?

Un’ipotesi è quella degli elefanti nani vissuti in Sicilia nel Paleolitico …Elephas Falconeri

Il loro cranio si presenta con un grande buco centrale, che lasciava adito alla fantasia popolare di ritenerlo l’orbita di un solo grande occhio in mezzo alla fronte.

L’occhio rotondo centrale del «Cicl – ope».

In realtà tale foro sarebbe il punto d’innesto della proboscide (apparato nasale).

Il Palaeoloxodon falconeri (l’elefante nano di cui si sta parlando) da adulto era alto al massimo un metro alla spalla e si trovava in Sicilia circa 500.000 anni fa.

I suoi resti sono stati ritrovati in grotte, come quella di Spinagallo, nei pressi di Siracusa, dove entrava in cerca di sali minerali.

D’altronde, il cranio degli “elefanti nani” non era molto più grande di quello degli uomini.

Questi elefanti, inoltre, si trovavano anche su altre isole del Mediterraneo; quindi, è facile che i racconti che circolavano assieme ai commerci, venissero avvalorati dai ritrovamenti sparsi in più isole dello stesso Mediterraneo.

I Ciclopi vivono prima della guerra di Troia, nell’età della pietra, della ceramica, del rame e del bronzo, fino agli albori dell’età del ferro e della loro presenza non rimane nessuna traccia.8

Bernabò Brea, a p. 20 del testo La Sicilia prima dei Greci, dice:

«L'elemento più caratteristico di questo complesso faunistico sono però gli elefanti nani, che la Sicilia ha in comune con le altre isole del Mediterraneo (Sardegna, Creta, Cipro) e soprattutto con Malta, con la quale, però, almeno fino al principio del pleistocene, la Sicilia era certamente congiunta.

Gli elefanti di razza nana derivano dal maggiore fra gli elefanti conosciuti e cioè dall'Elephas antiquus.

In essi si riconobbero, soprattutto in base al progressivo nanismo, tre varietà principali: El. ant. maidrensis, El. ant. melitensis, El. ant. falconeri.

Quest'ultimo doveva essere poco maggiore di un grosso cane.»

E … chi era Ulisse?RAGAZZINA 2 +RAGAZZINO 1

ULISSE, personaggio principale dell’Odissea, era l’eroe, re di ITACA, che, dopo la guerra di Troia, voleva ritornare finalmente in patria dai suoi cari (PENELOPE, la moglie; TELEMACO, il figlio; LAERTE, il padre).

Egli, però, durante il viaggio di ritorno, si trovò ad affrontare molti pericoli e molti problemi, … per dieci anni. Uno di questi momenti difficili fu il brutto incontro con Polifemo.

Ulisse è il nome italiano; quello greco è ODISSEO, da cui ODISSEA. Il nome Odisseo, nel suono, è molto simile alla parola greca udèis che corrisponde all'italiano NESSUNO: il nome che l'astuto eroe userà per salvare sè e gli altri malcapitati.

UDEIS, NESSUNO, non però un uomo da nulla, come l'astuto itacese dirà al gigante infuriato, al momento della partenza.

La sera dell'incontro e la mattina successiva, il mostro mangia due uomini. Dopo la colazione, quando esce per portare gli animali al pascolo, chiude tutti gli altri dentro con un masso tanto enorme, che neppure ventidue carri a quattro ruote potrebbero smuovere.

Così Ulisse pensa ad uno stratagemma: durante la sua assenza, assieme ai compagni, taglia un tronco d’olivo che si trova nella caverna; appuntisce il palo di sei piedi, che ha ottenuto, e lo abbrustolisce al fuoco; in ultimo sorteggia quattro uomini che lo aiutino ad accecare quell'essere spregevole.

La sera, al ritorno, Polifemo porta dentro tutti gli animali, chiude l’antro, ripete le solitePOLIFEMO SI UBRIACA azioni e divora altri due giovani. A questo punto Ulisse gli offre tanto vino buono e lui, dopo avergli chiesto il nome e avergli promesso, come dono di ospitalità, che l’avrebbe mangiato per ultimo, si addormenta ubriaco …..

POLIFEMO ACCECATOE’ giunto il momento: i greci infiammano la punta del palo al fuoco che è lì vicino e gliela conficcano nell’occhio, accecandolo.

Il dolore lo fa svegliare urlando, tanto da destare gli altri ciclopi. Essi accorrono prontamente, spaventati dai suoi forti lamenti e temendo per se stessi. Giunti vicino, gli chiedono chi gli stia facendo del male.

La risposta è Nessuno e tutti vanno via, consigliandogli di rassegnarsi, perché se nessuno gli procura male, vuol dire che le sue sofferenze dipendono da Giove.

Preghi, perciò, il padre Nettuno.

Quando si calma, Polifemo toglie il masso e apre la caverna. Si ferma all’uscita, tastando con le mani, per sentire se qualcuno degli uomini esca assieme agli animali.

Ulisse è furbo, però: suddivide le pecore in gruppi di tre, legandole insieme; poi, sotto quella centrale, ben nascosto, assicura un compagno.

Lui, a sua volta, si aggrappa sotto la pancia di un grosso ariete, l’animale preferito dalULISSE E L'ARIETE ciclope.

L’ariete si ferma vicino all’infermo, che lo accarezza, parlandogli con parole dolcissime …

Neanche Ulisse viene scoperto e tutti possono mettersi in salvo sulle imbarcazioni che avevano lasciato a riva.

Polifemo capisce e cerca di colpirli con dei grandi massi strappati alla roccia che incombe sul mare … non riesce … allora prega il padre di vendicarlo … e il padre che domina sulle acque, susciterà grandi tempeste.

Ecco, la leggenda dice che i Faraglioni di AcitrezzaACITREZZA-2-MODIFICATA-MANT, sono i massi che Polifemo scagliò quel giorno.

 

ODISSEO – OUDEIS – NESSUNO incarna l’astuzia dei commercianti; la sete di conoscenza che non sfugge il rischio; la fiducia nel proprio obiettivo, che non teme nè le avversità né le ostilità degli uomini; la ricchezza interiore accumulatasi lungo il cammino della vita e temprata dalle prove affrontate coraggiosamente; lo spessore delle esperienze, stratificate e rielaborate a contatto con i tanti popoli da lui conosciuti nel Mediterraneo e in Sicilia.

Infatti, questa grande isola ha avuto una sua preistoria, immigrazioni  e contatti conNAVE FENICIA popoli evoluti, come, per i tempi riferiti, i Fenici, i quali hanno contribuito a diffondere nel Mediterraneo occidentale innovazioni tecnologiche, artistiche e culturali. Tali novità cominciano a plasmare non solo il carattere e il pensiero dei siciliani, ma anche quello della storia e della cultura mediterranea, preparando la formazione dell’Europa e del mondo occidentale.9 

Alla figura di Ulisse si ispirano autori di rilievo, mettendo in luce i lati del suo carattere.

Se Dante lo condanna come consigliere fraudolento, lo ammira, invece, e lo addita per il suo coraggio, per la sua intraprendenza e, più ancora, per la sua sete di sapere che non teme ostacoli né pericoli, e che fa onore all’essenza della natura umana, protesa verso interessi superiori.

Rileggiamo i versi 87 – 142 del XXVI canto dell’Inferno:

 

DANTE

INFERNO CANTO XXVI

         …

         indi la cima qua e là menando,
         come fosse la lingua che parlasse,
90     gittò voce di fuori, e disse: "Quando

         mi diparti' da Circe, che sottrasse
         me più d'un anno là presso a Gaeta,
93     prima che sì Enea la nomasse,

        né dolcezza di figlio, né la pièta
        del vecchio padre, né 'l debito amore
96    lo qual dovea Penelopé far lieta,

        vincer poter dentro da me l'ardore
        ch'i' ebbi a divenir del mondo esperto,
99    e delli vizi umani e del valore;

        ma misi me per l'alto mare aperto
        sol con un legno e con quella compagna
102  picciola da la qual non fui diserto.

        L'un lito e l'altro vidi infin la Spagna,
        fin nel Morrocco, e l'isola de’ Sardi,
105  e l'altre che quel mare intorno bagna.

        Io e' compagni eravam vecchi e tardi
        quando venimmo a quella foce stretta
108  dov’ Ercule segnò li suoi riguardi,

        acciò che l'uom più oltre non si metta:
        dalla man destra mi lasciai Sibilia,
111   all'altra già m'avea lasciata Setta.

        "O frati", dissi "che per cento milia
        perigli siete giunti all'occidente,
114  a questa tanto picciola vigilia

        de’ nostri sensi ch'è del rimanente,
        non vogliate negar l'esperienza,
117  di retro al sol, del mondo sanza gente.

        Considerate la vostra semenza:
        fatti non foste a viver come bruti,
120  ma per seguir virtute e canoscenza".

        Li miei compagni fec'io sì aguti,
        con questa orazion picciola, al cammino,
123  che a pena poscia li avrei ritenuti;

        e volta nostra poppa nel mattino,
        dei remi facemmo ali al folle volo,
126  sempre acquistando dal lato mancino.

        Tutte le stelle già de l'altro polo
        vedea la notte e 'l nostro tanto basso,
129  che non surgea fuor del marin suolo.

        Cinque volte racceso e tante casso
        lo lume era di sotto dalla luna,
132  poi che 'ntrati eravam ne l'alto passo,

        quando n'apparve una montagna, bruna
        per la distanza, e parvemi alta tanto
135  quanto veduta non avea alcuna.

        Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto,
        ché della nova terra un turbo nacque,
138  e percosse del legno il primo canto.

        Tre volte il fe’ girar con tutte l'acque:
        alla quarta levar la poppa in suso
141  e la prora ire in giù, com'altrui piacque

        infin che 'l mar fu sovra noi richiuso»

Bellissima l'osservazione che, per bocca di Dante, Ulisse fa ai suoi compagni:

         «Considerate la vostra semenza:
         fatti non foste a viver come bruti,
120   ma per seguir virtute e canoscenza".

 

Le prove che Ulisse affronta lungo il viaggio di ritorno in patria sono tante e ardue, ma temprano il suo animo e lo maturano.

La gente che incontra, amica o nemica che sia, gli propone modi di vita, usi e costumi, diversi , ora da apprendere ora da rigettare e da combattere, ma tali da allargare le sue conoscenze, implementare le risorse del suo spirito, offrirgli nuovi elementi di comprensione e nuovi strumenti, per essere in grado di interagire con l’altro.

Anche Foscolo evidenzia la bellezza spirituale che Ulisse ha raggiunto nelle sue peregrinazioni verso l’amata patria Itaca, pietrosa e arida nella realtà, ricca, bella e desiderabile nel suo animo. A quella meta, per cui ha resistito e ha lottato con forza e grandi sacrifici, è giunto alla fine, felice e soddisfatto, celebrato da Omero, cioè da

«colui che l’acque cantò fatali e il diverso

esiglio, per cui bello di fama e di sventura,

baciò la sua petrosa Itaca Ulisse»

 

E la dimensione della vita come viaggio arricchente, è il tema della poesia di Costantin Kavafis che viene proposta di seguito.

Che l’Uomo non abbandoni mai il suo obiettivo; che non trascuri mai di far esperienze; che non trascuri mai  di apprendere quanto di buono c’è negli altri; che valorizzi sempre quanto appreso; che sia forte, coraggioso e determinato.

La meta raggiunta può sembrare inferiore alle aspettative e di poco valore; ma il premio della grandezza e della ricchezza ottenute nell’animo non ha prezzo.

Che bella la «petrosa Itaca», ricca di affetti da difendere e di cui riappropriarsi con la forza del corpo, con l’esperienza di una vita, con la sicurezza dei sentimenti!

 

Costantin Kavafis :

 

                         ITACA

Quando ti metterai in viaggio per Itaca 
devi augurarti che la strada sia lunga, 
fertile in avventure e in esperienze. 
I Lestrigoni e i Ciclopi 
o la furia di Nettuno non temere, 
non sarà questo il genere di incontri 
se il pensiero resta alto e un sentimento 
fermo guida il tuo spirito e il tuo corpo. 
In Ciclopi e Lestrigoni, no certo, 
nè nell’irato Nettuno incapperai 
se non li porti dentro 
se l’anima non te li mette contro.

Devi augurarti che la strada sia lunga. 
Che i mattini d’estate siano tanti 
quando nei porti – finalmente e con che gioia – 
toccherai terra tu per la prima volta: 
negli empori fenici indugia e acquista 
madreperle coralli ebano e ambre 
tutta merce fina, anche profumi 
penetranti d’ogni sorta; più profumi inebrianti che puoi, 
va in molte città egizie 
impara una quantità di cose dai dotti.

Sempre devi avere in mente Itaca – 
raggiungerla sia il pensiero costante. 
Soprattutto, non affrettare il viaggio; 
fa che duri a lungo, per anni, e che da vecchio 
metta piede sull’isola, tu, ricco 
dei tesori accumulati per strada 
senza aspettarti ricchezze da Itaca. 
Itaca ti ha dato il bel viaggio, 
senza di lei mai ti saresti messo 
sulla strada: che cos’altro ti aspetti?

E se la trovi povera, non per questo Itaca ti avrà deluso. 
Fatto ormai savio, con tutta la tua esperienza addosso 
già tu avrai capito ciò che Itaca vuole significare.

 

Riflessione:

«Quanta realtà c’è nei miti, nelle leggende e nelle epopee dei popoli?»

Ulisse ricorda i Micenei; come loro naviga nel Mediterraneo, prima ancora della colonizzazione dei Greci; conosce i Fenici e, tramite loro, anche gli Egizi e il mondo orientale, con cui quei marinai mantenevano stretti legami.

I Fenici avevano le loro basi sulle coste siciliane, importando ed esportando fra l’occidente della Spagna e della Sardegna e il Vicino Oriente degli Assiri. 10

Già prima dell’età del ferro (circa 1200 a.C.), frequentavano il Mediterraneo, come commercianti; scambiavano merci e prodotti artigianali da una terra all’altra per tutto l’occidente conosciuto. Successivamente oltrepassarono le terribili colonne d'Ercole (Stretto di Gibilterra), viaggiando su quelle acque che costarono la vita ad Ulisse e ai suoi pochi vecchi amici.11

Essi incontrarono e misero in contatto le evolute civiltà  del vivace mondo mediterraneo: Egizi e Micenei, senza lasciare in secondo piano la forza e l’importanza delle culture popolari locali che si manifestano nella produzione artigianale, condizionandola.12

Così come di quella fenicia, si deve parlare di una massiccia presenza micenea nel Mediterraneo, prima della colonizzazione greca, iniziatasi intorno all'VIII secolo a. C. Tale presenza, pur essendo dedita essenzialmente ai commerci e al reperimento di materiale locale, in qualche caso, già allora, diede vita ad insediamenti stabili, come in Sicilia, Puglia, Sardegna.13

Si può dire che Siciliani e Micenei cominciarono a stabilire relazioni fra di loro già nel XVIII secolo e anche un po’ prima14 e che figure come Eracle e Minosse, presenti anche nella mitografia della Sicilia, ne sono testimonianza. 15.

© Antonina Orlando, 06 – 11 – 2014

 

 

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1Dizionario Etim. Lingua Ital. – alla voce Ciclope

Claudio Saporetti, Diana Facellina, Ed. Pungitopo, pagg. 88 e 89

3Claudio Saporetti, Diana Facellina, Ed. Pungitopo, pag. 18

4 Claudio Saporetti, Diana Facellina, Ed. Pungitopo, p 34

5 Claudio Saporetti, Diana Facellina, Ed. Pungitopo, p 57

6 Claudio Saporetti, Diana Facellina, Ed. Pungitopo, p 47 e pp. 161 – 162

7 Storia della Sicilia, dalle origini ai giorni nostri, vol. 1 p.38

8 F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, vol. 1°, Sellerio editore Palermo, p. 26,27

9 F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, vol. 1°, Sellerio editore Palermo, p. 13

10 Sabatino Moscati, Chi furono i Fenici, p. 96

11 Sabatino Moscati, Chi furono i Fenici, p. 54 e p. 159

12 Sabatino Moscati, Chi furono i Fenici, p. 160

13 Sabatino Moscati, Chi furono i Fenici, p. 89

14 F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, vol. 1°, Sellerio editore Palermo, p. 37

15 F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, vol. 1°, Sellerio editore Palermo, p. 18