MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA

stelle e coriandoli  MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA

 Pagliacci coloratissimi con simpatici nasi rossi e con parrucche variopinte, famose mascherine e tanti altri allegri personaggi, animavano festosamente i negozi ricchi di coriandoli, cappellini e stelle filanti,  calamitando occhi affascinati.

  Qualche mamma si affrettava a completare il lavoro prima dell’ultima domenica di carnevale e nell’originalità della creazione trasferiva emozioni, colori, sfumature e figure del suo spirito. I soggetti scelti, sia nuovi che tradizionali, prima di essere realizzati, attraversavano le maglie della sua immaginazione e della fantasia dei figli.

 Anche Anna realizzava ogni anno personalmente i costumi dei suoi bimbi che, curiosi, la seguivano nel lavoro, ponendole mille domande. L’Estate, la Primavera, il Signor Bonaventura, la Fatina dai capelli turchini, i maghetti, l’omino di neve, avevano tutti un tocco personale e originale e, soprattutto, non si trovavano in nessun negozio e su nessuna rivista.

Mentre cuciva, la giovane mamma con il pensiero andava spesso indietro nel tempo e ricordava quando, bambina e piena di entusiasmo, era lei a mascherarsi …

 Da una cassapanca di legno massiccio e antico, con il coperchio bombato, tirava fuori abiti che facevano rivivere l’atmosfera di un’epoca antica. Un tempo in cui le donne andavano con i vestiti lunghi e con i capelli raccolti sulla nuca o sciolti e inanellati sulle spalle. Si muovevano lente, con un fascino ormai inusuale, dentro le lunghe e larghe gonne fruscianti.

Assieme alle cugine, lei frugava nello scrigno, tirandone fuori camicie da notte, gonne, vestaglie e calze finemente lavorate a maglia, come un merletto. Sangalli, trine e nastrini facevano bella mostra di sé sul bianco delle tele di cotone o di lino, impreziosendo con minuti trafori poliedrici colli, polsini e corpetti.

Ognuna delle bambine sceglieva un capo che, con un po’ di fantasia, potesse adattarsi alla sua figura e ai suoi gusti. Capelli pettinati opportunamente (Anna li aveva lunghi e ne otteneva acconciature e code invidiabili), un po’ di trucco con i rossetti delle mamme, un velo di cipria, una manciata di coriandoli ed ecco la trasformazione.

 Andavano, poi, in giro per le case di parenti e conoscenti, felici di non essere mai riconosciute o di venire riconosciute a fatica.

La gioia era tanto maggiore quanto più le mascherine credevano di non essere state scoperte ed era grandissima per chi era convinta di essere riuscita a mantenere l’anonimato più a lungo delle altre.

 Oltre a questo modo di “vestirsi da carnevale”, ve ne erano altri mille e tutti prevedevano un tocco di creatività.

Anna amava vestirsi da contadinella con una gonna di cotone, arricciata in vita, vaporosa, e intessuta con fiori colorati e con rose rosse sul bianco dello sfondo, macchiato qua e là dal verde degli steli e delle foglioline. Il giro vita della gonna tratteneva garbatamente una morbida, candida camicia; le sue maniche venivano fuori da un gilè di velluto liscio, nerissimo, su cui poggiava il colletto della stessa camicia che aveva la prima abbottonatura slacciata. Sui capelli era posato un cerchietto verde con cinque roselline rosse, realizzato dalla stessa Anna con l’aiuto di una zia che aveva il compito di aiutare le bimbe a realizzare o a completare con gli accessori idonei il proprio vestitino. Tutte si esercitavano a costruire cerchietti con fil di ferro ricoperto da carta crespa verde e roselline, anch’esse di carta crespa, rossa, ritagliata e lavorata opportunamente, in modo da formare dei petali, da comporre in boccioli per il cerchietto.

Dalle loro mani usciva un’infinita varietà di cappellini, mascherine e bacchette magiche, mentre, tra risate e scherzi, trombette, ritagli di giornali, carta colorata, coriandoli e stelle filanti inondavano il pavimento delle stanze lasciate a disposizione per i “lavori”.

 All’ora del pranzo, quando dalla cucina arrivava l’invito a lavarsi le mani e a sedersi a tavola, Anna, Agnese, Luisa e Marta lasciavano tutto, si preparavano e si sedevano ai propri posti, accanto agli altri cugini, attorno al tavolo più piccolo, perché quello più grande era riservato agli adulti

Il buon profumo del sugo di maiale, sparso già per ogni dove, impregnava deliziosamente l’aria e invitava gioiosamente alla festa, mentre, secondo il solito rito, venivano conditi i “maccheroni di casa”, preparati il giorno precedente con l’ausilio di tutti:

la mamma impastava; poi, dalla pasta formava le “corde”, da cui le bambine più piccole ricavavano bastoncini pressoché uguali fra loro per lunghezza e diametro; le bambine più grandi lavoravano i bastoncini con il ferro, ottenendone i maccheroni. Gli uomini stendevano la pasta ad asciugare. Alla fine si faceva il maccherone grosso. Chi se lo fosse ritrovato nel piatto, avrebbe suscitato le risate generali e sarebbe stato apostrofato come il Carnevale dell’anno.

Maccheroni, carne di maiale e patatine fritte, insalata e salsiccia caratterizzavano il pranzo di quel giorno. Come dessert, frutta,  le inevitabili frittelle farcite di ricotta o cioccolato, pignolata e cannoli. Discorsi, scherzi e risate coronavano e arricchivano la mensa.

beppe nappa 2  Nel piccolo paese di Anna le tradizioni affondavano le loro radici nella notte dei tempi e, pur alquanto rivisitate, si mantengono ancora oggi fra le nuove generazioni. Gli anziani continuano a raccontare la storia della maschera locale, Beppe Nappa, e delle loro tradizioni

 Anna stava completando l’ultimo costumino, quando il suo pensiero andò ad altri carnevali, più o meno ricchi e famosi, di altre città.

Si ritrovò così in una domenica pomeriggio di qualche anno prima. Cercava di spingere il passeggino del suo bimbo in mezzo ad una folla immensa, colorata e festante. Non era sola, ma nessuno fra quanti l’accompagnavano riusciva a trovare una calle, dove poter camminare più comodamente.

PUPI VENEZIA artistica  Il raduno di gente a Venezia in un’occasione come quella di carnevale è cosa risaputa, ma quella volta non erano previste le enormi dimensioni del fenomeno. Lo spettacolo su dai ponti era straordinario e sapeva di surreale.

Una marea umana riempiva calli, ponti, campi e campielli. Fra una maschera e l’altra non c’era spazio. Nessuno sarebbe potuto cadere, nemmeno per un eventuale malore; molti, infatti, l’avrebbero sorretto involontariamente con la prossimità del proprio corpo. Onde caleidoscopiche oscillavano lentamente, senza sosta, mentre un mormorio indistinto si librava nel cielo, spargendosi in ogni dove. Non si andava dove si voleva, si andava dove la massa spingeva e …, immerso in quella folla così inaspettatamente enorme, il povero passeggino pensava di potersi fare strada! Non solo, pensava addirittura di poter andare su e giù per ponti e ponticelli, verso la sua meta!

“Bisogna esser mati!” – urlava chi vedeva a rischio l’incolumità del bimbo – “chi podeva saver …!” controbatteva qualcuno dei compagni d’avventura di Anna, che intanto cercava una soluzione.

All’improvviso, senza saper come, il percorso fu libero e si trovò tranquilla e sicura al riparo di un muro di contenimento: erano giovani dal corpo robusto che, pronti e generosi, avevano arginato la folla, mentre, con le forti braccia piegate ad arco, poggiando le mani al muro lungo il quale correva la parte terminale del ponte, formavano una galleria. Anna passò in fretta, ma, quando si girò per un nuovo segno di gratitudine, non vide più nessuno. Così come in silenzio e determinati erano giunti, allo stesso modo, senza farsi notare, i giovani sparvero tra la gente, senza che nessuno sapesse chi fossero o potesse salutarli .

BATMAN ESTATE CLOWN artistica  Ormai il lavoro era completato e i vestitini furono pronti in tempo. Erano davvero belli: Estate, Batman e il pagliaccetto.

© Antonina Orlando 16 Febbraio 2015

 

MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA

 

 

Incontri d’autore: ALBINO AGUS

Lo scrittore ALBINO AGUS

e i suoi due libri

 

Il tralcio staccato

e

Is contusu de s’arrollieddu

(I racconti del crocchio)

 

 

          2 Il 25 Gennaio scorso, in via Reiss Romoli 45, ha avuto luogo “Incontri d’autore”, manifestazione culturale organizzata e realizzata dall’Associazione “Nosu Impari” di Torino.

 

           Luisa Pisano, Marcello Pisano e Rebecca Melis hanno presentato i due ultimi libri di Albino Agus: “Il tralcio staccato” e “I racconti del crocchio”, alcuni brani dei quali sono stati letti da Rebecca Melis.

Il  pubblico è stato subito coinvolto e molti si sono emozionati ricordando, attraverso la parola dello scrittore e dei conduttori, momenti di esperienze trascorse. Il commento di alcuni passi salienti di entrambe le opere, infatti, ha dato modo di rievocare tradizioni, stili di vita, chiaroscuri e interrogativi di una terra sempre viva nel cuore dei figli lontani, perché bella e ben radicata nella sua storia e nella sua identità.

           “Io,” – dice lo scrittore – “come chi va via, mi sono innamorato della Sardegna, quando ero fuori dalla Sardegna”; “Chi è ancora in Sardegna e va a lavorare nei campi con la zappa che sprigiona scintille sulla pietra, vede il mare come il muro di una prigione. La nave che passa è la speranza di un’occasione”, ma dopo la partenza si riconosce la bellezza della propria terra, dove le nuove abitudini acquisite impediscono di ritornare a vivere.

           Ricordando alcuni degli episodi della sua vita, svoltisi a Villaputzu ed esposti nell’autobiografia “Il tralcio staccato”, Agus ha lasciato spazio a riflessioni e dibattiti su problematiche sempre attuali:

 

  • La condizione della donna “serva”, descritta nell’infanzia tormentata di una bambina rimasta orfana a undici anni, diventata di colpo la mamma dei fratelli e  responsabile dell’organizzazione della casa; sempre attenta a non permettersi un attimo di distrazione e di riposo, per non incorrere nelle ire del padre. Un padre, capace di portare via, ad insaputa della figlia, il gruzzoletto di soldi che lei, scegliendo di lavorare in casa d’altri, faticosamente aveva potuto mettere da parte per la “dote”. Il “Padre padrone” di Gavino Ledda, ancora presente, purtroppo, in molte famiglie, e non solo sarde – ha ricordato qualcuno del pubblico.
  • Il bambino del romanzo (alias Albino), fortemente desideroso di qualche manifestazione d’affetto da parte della mamma, esacerbata dalla durezza della vita e completamente assorbita dai lavori quotidiani, come molti genitori, trascinati lontano dai figli dai ritmi e dalle esigenze della società “progredita”.
  • L’educazione spartana e inflessibile impartita ai bambini, confrontata con il permissivismo esagerato che oggi talora si riscontra. Questo non è sempre frutto di scelte pedagogiche, ma, molte volte, di necessità contingenti, legate alle problematiche degli adulti.
  • Il perdono. “Nel perdono c’è una pace interiore che non si può neanche descrivere … una ricchezza interna che non si può spiegare … non è facile”, dice Agus. Il rancore che tormenta l’animo del giovane figlio, invano desideroso di segni tangibili d’affetto, si tramuta col tempo nel dolce e rasserenante perdono dell’adulto che ha riconosciuto l’amore naturale e profondo nel cuore della madre, plasmata dalla mentalità del paese e dal vissuto doloroso.

           Vita rassicurante e appagante quella emersa dalla presentazione de “I racconti del crocchio”.

Il pubblico ha avuto modo di apprezzare o di rivivere i momenti di socialità dei “crocchi”, in cui spontaneamente per strada, in piazza, sulla soglia di casa, si riunivano i compaesani. Nei crocchi ci si raccontava di sé, degli altri, dei fatti del paese, ci si lamentava, si rideva e si scherzava, senza conoscere gli spasmi di una società frenetica, caratterizzata da individui soli fra potenti strumenti di comunicazione virtuale e social networks.

“Che fine ha fatto il crocchio?”

“Il crocchio è morto!”

“E chi l’ha ucciso!”

“La televisione!”

“La televisione?”

“Sì comare, la televisione ha ucciso il crocchio!”

 

Questo l’incipit del racconto “Il crocchio”.

 

Altro notevole tema dell’incontro: il dialetto.

           “Quando io ero bambino” – dice Agus – “si andava a scuola per imparare l’italiano, come oggi si va a scuola per imparare le lingue”.

Ormai, invece, si tende a non parlare più in dialetto. Per lo scrittore, il dialetto è la carta di identità di un popolo e ha il valore affettivo e identitario proprio della lingua con cui ognuno di noi impara a relazionarsi con l’altro. Perciò, egli scrive I racconti del crocchio in “serrabese”, il suo dialetto caratteristico derivato dall’arabo, avendo l’avvertenza, però, di renderli accessibili a qualsiasi lettore, con il corredo della traduzione a fronte.

 

           A conclusione dell’incontro, interessante e stimolante, Luisa Pisano ha ringraziato Albino Agus. Un pensiero riconoscente è stato rivolto, inoltre, a tutti gli scrittori che hanno il merito di arricchire lo spirito di chi li legge, anche con il racconto di storie personali. In esse, infatti, il lettore ritrova spesso qualche aspetto del proprio vissuto.

 

© Antonina Orlando  27 Gennaio 2015