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MARSALA, I FLORIO E LE LORO CANTINE

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Marsala, città nata sulle rovine dell’antica fenicia Lilibeo, si stende  su  un bellissimo lembo di terra –  capo Boeo – all’estremità occidentale della Sicilia.

Racchiusa fra Erice, Segesta e Selinunte, le fanno corona dal mare le isole Egadi, le isole dello Stagnone e le famose saline, che esaltano la suggestione del suo ambiente storico – geografico:

l’isola di Favignana, nelle Egadi, con la sua tonnara, 

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l’isola di Mozia, nello Stagnone, con i suoi scavi, il suo museo, le sue bellezze naturali,

 mozia  

 


 

 

 

 

 

le saline con l’incanto della loro luce saline

 

 

 

 

 

 

 

e gli antichi, pittoreschi mulini a vento.mulini-a-vento

 

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I caratteristici tramonti rosati avvolgono strati di storia secolare giuntaci attraverso

reperti archeologici, reperti-archeologici

 

 

 

 

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monumenti

 

 

tradizioni religiose e popolari.

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Persino i nomi che la città ha assunto nel tempo raccontano fatti e avvenimenti storici: Lilibeo è il nome datole dai Fenici, quando nel IV secolo a. C. vi si sono insediati, fuggendo da Mozia che il tiranno di Siracusa, Dionisio il Vecchio,  aveva assediato e distrutto.

Ed è da Lilibeo – città che guarda la Libia – che ai Marsalesi deriva anche l’appellativo di Lilibetani.

Furono successivamente gli Arabo-Berberi che nell’VIII secolo, risvegliando i traffici commerciali e l’economia della città, la rinominarono Marsa Alì, Porto di Alì, o, forse, Marsa ālyy, Porto grande, oppure ancora Marsa Allāh, Porto di Dio o ancora, più semplicemente è all’espressione latina mare salis, mare di sale che la città deve il suo nome.

Anche l’evoluzione storico – economica dei secoli più recenti, le riconosce una posizione significativa, nella realtà italiana ed europea.

Ne sono esempio le cantine Florio di Marsala, della cui visita effettuata da Mantano, si riportano alcuni momenti nel corso del presente articolo.

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Prima di varcare il cancello, su cui è impresso il nome delle cantine stesse e la data della prima produzione del famoso marsala Florio, l’attenzione si posa sullo stemma della famiglia, un leone in bronzo che sovrasta l’ingresso. leone-malato-particolare

Superato il cancello, si accede al cortile, dove si aprono le cantine e dove è pronta la simpatica e brava guida Sabrina Marino.

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cantine

 

Varcare le porte della cantina significa essere avvolti da un’atmosfera speciale. La mescolanza degli aromi e dei bouquets, la temperatura fresca e il colore caldo delle botti colgono all’improvviso il visitatore, trasportandolo in una nuova realtà.

Sabrina si avvia verso botti di grandissime dimensioni, vicino alle quali si sofferma, per spiegare il tipo di marsala che vi è contenuto

e per raccontarne la storia, che risale addirittura al Settecento, epoca in cui l’Inghilterra aveva molti interessi commerciali anche in Sicilia.

Nel 1773, infatti, l’inglese John Woodhouse, l’”inventore” del vino marsala, introdusse in città la produzione del vino su scala industriale e, con fondi propri, vi costruì molte infrastrutture.

Lo seguirono Ingham e Whitaker, che avevano compreso l’importanza economica di quell’iniziativa.

Le nuove tecnologie che sfruttavano l’energia del vapore, ormai ampiamente utilizzate in Inghilterra, poco alla volta venivano esportate sul continente europeo, mentre i commerci inglesi, enormemente importanti sul piano internazionale, erano fiorenti anche nel Mediterraneo, dove l’Inghilterra non voleva perdere il controllo di Malta e della Sicilia.

Da e per la Sicilia, dunque, i battelli a vapore facevano la spola, trasportando verso porti lontani merci e prodotti di ogni genere, che spesso venivano depositati in via provvisoria a Malta.

Nell’Ottocento, quando la Rivoluzione Industriale, nella sua seconda fase, raggiunse anche l’Italia, Marsala venne a trovarsi fra le città più avvantaggiate dal nuovo spirito imprenditoriale ed economico, rappresentato non solo dagli Inglesi, ma anche dai membri di una famiglia di origine calabrese, i Florio, la cui presenza e la cui attività frenetica caratterizzerà la vita economica e culturale sia di Marsala e dei paesi vicini, che di Palermo.

I Florio provenivano da Bagnara Calabra e si spostarono in Sicilia forse a causa del fortissimo terremoto che colpì la loro terra nel 1783.

Furono i risultati positivi che Woodhouse e Ingham ottennero nella produzione del vino all’uso di Madera, tanto apprezzato dagli Inglesi, che persuasero Vincenzo Florio ad avviare a sua volta delle fattorie dello stesso tipo nello stesso territorio. Del resto negli anni Trenta dell’Ottocento erano molteplici i prodotti siciliani che destavano l’attenzione mondiale e che venivano molto richiesti all’estero. Fra questi lo zolfo, estratto nelle zolfare, la cui produzione in buona parte veniva esportata, e il vino.

Vincenzo Florio, nato a Bagnara Calabra nel 1799, iniziò la sua carriera, avendo a disposizione una solida base finanziaria, costruita lentamente prima dal padre, poi dallo zio Ignazio.

Il padre di Vincenzo, Paolo, era un commerciante e, giunto da Bagnara a Palermo, aprì una piccola drogheria, più precisamente un’ “aromateria” (negozio di spezie), dove, fra l’altro, si vendevano anche medicinali e prodotti chimici. Questa attività in pochi anni gli permetterà di incrementare il suo giro d’affari al punto da poter lasciare al figlio una notevole eredità.

Fu in particolare il chinino, usato come rimedio contro la malaria, l’articolo di punta dell’ “aromateria” non solo ai tempi di Paolo, ma anche quando a lui, morto nel 1807, succederà il figlio Vincenzo, i cui interessi, essendo lui ancora piccolo, furono curati abilmente dallo zio Ignazio, fratello del padre.

Per simboleggiare il potere medicamentoso del “cortice”, fu fatto scolpire un leone febbricitante (lo stemma che si può vedere all'ingresso del cortile) il quale, per guarire, beve le acque che lambiscono le radici dell’albero della china.

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Il commercio della polvere della corteccia dell’albero di china si sviluppò in modo significativo a partire dal 1824, quando Vincenzo, che aveva studiato nelle migliori scuole d’Europa, durante un suo viaggio in Inghilterra conobbe e analizzò la macchina che la polverizzava.

In quell’occasione egli decise di importare la macchina, per poter produrre autonomamente la china in polvere  a Palermo ed evitare così di doverla comprare in Inghilterra.

Morto lo zio Ignazio nel 1828, dal 1829 Vincenzo iniziò la sua carriera personale, proseguendo sulle orme della famiglia.

Fondò, infatti, varie società e grosse compagnie di navigazione, si interessò al settore degli zolfi, prese in affitto tonnare e diede vita a numerose iniziative industriali, fra cui quella dei vini di marsala.

Così, nel 1832, sfidò Ingham e Woodhouse, costruendo a Marsala uno stabilimento vinicolo che diventerà famoso. Lo stabilimento che Vincenzo Florio cominciò a costruire nel 1832, nacque in riva al mare, fra quelli di Ingham e di Woodhouse e cominciò a produrre già nel 1833.

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Subito dopo, nel 1834, creò una società con Raffaele Barbaro, dando vita ad uno stabilimento, chiamato “Baglio”. La società, però, si sciolse nel 1839, lasciandolo libero di continuare l’attività da solo.

La produzione del vino liquoroso di Vincenzo Florio si impose presto sui mercati sia nazionali che internazionali, ottenendo importanti riconoscimenti ufficiali.

Per produrre quel vino all’uso di Madera, cioè seguendo il sistema spagnolo e portoghese, venivano utilizzate uve molto ricche di zucchero, come il catarratto, la inzolia, il grillo, il domaschino ..

Inoltre, all’Esposizione Nazionale di Palermo del 1891-1892 non solo furono presentate le famose qualità di vino marsala, ma anche il primo campione di cognac siciliano.

Grazie all’industria enologica, Marsala divenne una delle città più ricche della Sicilia.

Dopo Vincenzo, morto nel 1868, il nome della famiglia fu tenuto ancora alto dal figlio Ignazio senior.

Lo stabilimento di Marsala divenne un grande e moderno complesso industriale sempre soggetto ad innovazioni; con macchine a vapore, per esempio, si costruivano botti e doghe, mentre la pulitura dei fusti veniva effettuata, utilizzando una macchina che agitava i vasi vinari, facendoli ruotare in ogni senso.

Queste le categorie del marsala e le sue ricette, così come spiegate da Sabrina.

Le diverse qualità del marsala furono spesso premiate nelle manifestazioni più importanti del settore e nelle Esposizioni internazionali.

Dal 1870 la fillossera, la peronospera  e l’oidio colpirono anche le uve marsalesi, così come quelle di quasi tutti i territori europei. I problemi economici più gravi, però, furono causati dai problemi politici internazionali e dalle continue e improvvise oscillazioni dei dazi doganali e delle tassazioni interne, nel contesto di quella crisi economica internazionale  che, iniziata intorno al 1873, si prolungò all’incirca fino al 1896.

La crisi dell’industria e il forte ridimensionamento del commercio caratterizzarono soprattutto l’età di Ignazio junior, figlio e successore di Ignazio senior. Nonostante ciò e pur colpito da gravissimi lutti in famiglia, circondato da amministratori spesso non all’altezza del loro compito, Ignazio non si arrese; cercò anzi di difendere le imprese ereditate, lottando anche contro la concorrenza delle concentrazioni industriali del nord Italia.

Sulle pagine dell’Ora di Palermo, giornale da lui fondato, vennero pubblicati molti articoli a sostegno delle sue ragioni.

Nelle relazioni mondane, tuttavia, fu mantenuto un tono elevato e la moglie di Ignazio junior, la bellissima e colta donna Franca, come la chiamò D’Annunzio, corteggiatissima e sempre molto ammirata da celebri artisti e letterati, da imperatori e re, sfoggiava gioielli preziosissimi.

Anche Vincenzo, fratello di Ignazio junior, amava la vita mondana. Egli lontano dalle attività economiche della famiglia, si occupò soprattutto di auto, di imbarcazioni di lusso e generalmente di sport. Organizzò manifestazioni e corse automobilistiche, la prima delle quali si rifece alla “settimana automobilistica di Brescia”.

Nel 1906 la corsa si svolse in Sicilia e furono messi in palio numerosi premi in denaro e una targa d’oro, chiamata “targa Florio”, da assegnare al vincitore.

Pensò anche a brevettare un autocarro, per trasportare su strade di montagna munizioni e viveri. Prodotto dal 1916 in avanti, il mezzo fu utilizzato durante la Prima Guerra Mondiale.  

La famiglia Florio, che si era interessata a promuovere la cultura e le arti (per esempio, Ignazio fece edificare il Teatro Massimo e il Politeama a Palermo), che aveva ospitato i più famosi e importanti reali dell’epoca, dallo zar di Russia, ai reali inglesi e agli imperiali di Germania, che aveva soccorso i Messinesi dopo il devastante terremoto del 1908, che aveva avuto relazione con i più rinomati artisti e scrittori dell’epoca, che aveva arricchito Palermo di splendide costruzioni liberty, poco a poco perse i suoi averi e, nel 1924, si trasferì a Roma, pur non interrompendo mai i legami con Palermo.

Ignazio jr., propose a Mussolini, che lo aveva convocato, un piano per permettere alla famiglia di sopravvivere con dignità, senza lasciare debiti:

tutti gli averi dei Florio, compresi i gioielli di Donna Franca, sarebbero stati ceduti allo Stato, in cambio di un vitalizio.

La Società Anonima Vinicola Italiana (S.A.V.I.), fondata da Ignazio jr, Vincenzo jr e da notabili e commercianti marsalesi, nel 1904, finì per essere controllata nel 1907 dalle “Distillerie Italiane”, appartenenti ad una società milanese.

Nel 1924 la società passò alla Cinzano, che nel 1928 acquistò anche le azioni della Woodhouse e la maggioranza della Ingham-Whitaker.

Nel 1929, fu incorporato tutto dalla S.A.V.I. e nacque la Florio-Ingham-Whitaker-Woodhouse con sede in Marsala.

Per finire, l’ILLVA (Industria Lombarda Liquori Vini e Affini) Saronno S.p.A., fondata il 23 luglio 1947 a Saronno,  acquistò la società Florio nel 1998 e, assieme a diversi altri vini siciliani, produce oggi il Marsala Florio e i vini Corvo.

 

                                            © Antonina Orlando 18 Ottobre 2016

 

MARSALA, I FLORIO E LE LORO CANTINE

CARRUBO, PIANTA MEDITERRANEA

 

CARRUBO Il carrubo – o "Pane di S. Giovanni", come viene chiamato a Ragusa (Sicilia) – è un albero tipico della vegetazione del Mediterraneo e il suo nome deriva dall'arabo “harrub(a)”. E’ una pianta grande, sempreverde e molto longeva, che riesce a vivere anche per più secoli, dando nel tempo frutti sempre più abbondanti.

L’albero, che può raggiungere un’altezza di circa 10 metri, si presenta con un tronco contorto e ha foglie lucide, coriacee, accoppiate e sostenute da un lungo picciolo. Dai fiori, profumatissimi, si ricava il miele di carrubo. Il suo frutto è la carruba, commestibile: si tratta di un baccello, la cui lunghezza va dai 10 ai 25 cm. e il cui colore passa dal verde iniziale al marrone scuro quando è maturo. La sua raccolta solitamente viene effettuata ad Agosto. La buccia del baccello maturo, oltre ad essere scura, è lucida, sottile e dura. All’interno troviamo una polpa di colore giallastro: il suo gusto dolce ricorda quello del miele e la sua consistenza è simile a quella di uno sciroppo.

Dentro la polpa vi sono numerosi semi ovali, molto duri e bruno – rossastri; dal loro nome greco, cheràtion (κεράτioν), che serviva a indicare anche il baccello, sono stati chiamati in italiano carati. Un tempo venivano usati come peso;  ancora oggi il termine viene usato in oreficeria come unità di misura e corrisponde a 0,2 g.

CARRUBE 1Le carrube, ben mature, sono nutrienti e ricche di calorie e proteine. Vengono utilizzate in medicina (farine dietetiche e lassativi); nell’industria alimentare (farine, polveri e gelatine per gelati, biscotti, marmellate, caramelle dolcissime, usate anche contro il mal di gola ); nell’allevamento (alimentazione del bestiame, soprattutto dei cavalli); e per preparare saponi, tinture per tessuti, gomme, addensanti, basi per cosmetici, ecc.

Il legno del carrubo, rossastro, duro e pesante, può essere usato per costruire attrezzi e mobili, mentre per il suo aspetto bello e decorativo, l’albero viene posto ad ornamento di parchi,  viali e strade.

CARRUBE KHALe carrube sono state consumate come frutta sin dai tempi più antichi. Gli antichi Egizi, per esempio, le mangiavano crude, cotte, in marmellate, oppure le macinavano, ottenendo una farina, il cui gusto oggi potrebbe essere avvicinato a quello del cacao, introdotto in Europa dopo la scoperta dell’America.

Il geroglifico della polpa della carruba, così zuccherina, OLIVE - DATTERI - FICHI SECCHIrappresentò il concetto stesso della dolcezza

e carrube, assieme a olive, fichi e datteri, sono state ritrovate  nel corredo funerario dell’architetto Kha, vissuto tra il 1400 e il 1300 a. C., durante la XVIII dinastia.

 

DIETA EGIZIDal Mediterraneo Orientale, da dove proviene,  la pianta del carrubo si è diffusa nelle terre occidentali, grazie ai Greci o ai Fenici. Del resto, da sempre il bacino del Mediterraneo è stato luogo di incontro di popoli, di civiltà, di merci. Dei traffici commerciali nel Mediterraneo esistono testimonianze letterarie ed una serie interessante di reperti archeologici che ci parlano dei beni maggiormente scambiati, fra cui derrate alimentari. L’archeologia ci testimonia che i traffici marittimi nel Mediterraneo risalgono alla più remota preistoria.

Il commercio in area mediterranea si svolgeva essenzialmente sul mare, soprattutto per la mancanza di un adeguato sistema di vie di comunicazione terrestri. I Fenici ebbero riconosciuto il primato nella gestione delle rotte commerciali mediterranee grazie alla loro abilità sia cantieristica che di naviganti e commercianti.

Dall’Oriente, dunque, grazie ai commerci presenti nel Mediterraneo sin dalla Preistoria, il carrubo si diffuse molto presto verso occidente. In Italia attualmente è coltivato nelle regioni meridionali, soprattutto in Sicilia, con particolare riguardo al territorio intorno a  Ragusa. Essendo una pianta molto robusta, la sua coltivazione è facile, richiede poche cure e, spesso, è associata a quella dell’olivo e del mandorlo.

 

Alcune espressioni popolari da Nord a Sud, dal Veneto alla Sicilia:

 

I baccelli della carruba, così ricchi e importanti in molti campi, si presentano semplici e umili e, per questa parvenza, il loro nome viene spesso usato metaforicamente dal popolo per indicare cose di poco valore; per esempio in venezianocarobera”, stava ad indicare “barca di scarso valore, adibita al trasporto di cose povere come carrube, e in senso traslato rottame".

Il Dizionario del dialetto veneziano di Giuseppe Boerio, Premiata tipografia di G. Cecchini edit. Venezia 1856, alla voce “Carobera” spiega: “Topaia, casa antica e che sia in pessimo stato”. “Cose inutili, perché fracassate o rotte”.

Ancora oggi si può assistere a dialoghi di questo tipo: “ Xe na bea casa?” “Per carità! La xe na carobera!

 

Le carrube, associate all’immagine degli animali, nel caso specifico dell’asino, come alimento, si ritrovano in un’espressione del messinese:

Piddia ’u sceccu cu tutti i carrubbi” (lett. “Ho perduto l’asino con tutte le “carrube”), per dire che si sta aspettando inutilmente o che si è persa di vista una persona con tutto quello che le era stato affidato.

 

Il documentario di Giovanni Iacono, di seguito riportato, illustra le fasi salienti della raccolta dei baccelli del carrubo, della loro lavorazione e dell’impiego che ne viene fatto in vari settori artigianali e industriali.

 

BANDIERA ITALIANALa Carruba: il pane di San Giovanni

 

BANDIERA INGLESEThe Carob – Saint John's bread

 

BANDIERA TEDESCAJohannisbrot – Das Brot von St. Johannes

 

 

RINGRAZIAMENTI

Si ringraziano sentitamente per la gentile e importante collaborazione

Giovanni IACONO per aver messo  a disposizione molto cortesemente i documentari sul CARRUBO – PANE DI SAN GIOVANNI

Luciano DI MURO, guida turistica torinese, per l'interessante visita al MUSEO EGIZIO DI TORINO, da cui provengono le foto della dieta degli antichi Egizi e quelle delle carrube, delle olive, datteri e fichi secchi, ritrovati nella tomba di Kha.

 

 

 

     © Antonina Orlando 08 Febbraio 2016

 

CARRUBO PIANTA MEDITERRANEA