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SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 3

SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 3

L’ambiente socio – politico – economico in cui nasce la Prima Guerra Mondiale

PARTE TERZA:

L'ITALIA verso l'IMPERIALISMO – L’EMIGRAZIONE – La TUNISIA

 

L’Ottocento industrializzato e imperialista in sintesi

 

 – L’Ottocento fu il secolo del grande sviluppo industriale, della colonizzazione e dell’imperialismo

Mentre in Italia si susseguivano gli avvenimenti che avrebbero portato all’unificazione della penisola, le grandi potenze europee, ormai industrializzate, formalizzavano i possedimenti coloniali, già da molto tempo sotto il loro controllo economico, e occupavano numerosi altri territori con interventi militari sia in Africa che in Asia e nel Pacifico. Il dominio su tante colonie così ricche da poter fornire materie prime e così utili da poter essere mercati per le industrie della madrepatria nonché piazze per nuovi investimenti, accresceva il potere degli Stati imperialisti non solo economicamente, ma anche politicamente. Infatti, tale dominio conferiva loro il “prestigio” necessario per influire sulle scelte politiche ed economiche internazionali.

Gli Europei, inoltre, strumentalizzando le teorie di Darwin, si considerarono all’apice dell’evoluzione sociale e culturale e ritennero gli altri popoli arretrati e primitivi: esseri da civilizzare e da mettere in mostra, al pari di animali esotici, in zoo umani in occasione delle esposizioni europee.

  – e anche il secolo delle comunicazioni e dell’accelerazione degli spostamenti:

  1. Fu migliorato, per esempio, il telegrafo, con cui nel 1844 l’americano S. Morse, riuscì a collegare Baltimora e Washington, e che dal 1896 G. Marconi fece funzionare senza fili; fu inventato il telefono; furono mandate in onda le prime trasmissioni via radio, dopo i primi segnali inviati da Marconi oltre Atlantico nel 1901.
  2.  
  • Nel 1825 entrò in funzione la prima linea ferroviaria, fra Stockton e Darlington (Inghilterra); nel 1826 – 30 Stephenson costruì la ferrovia Liverpool – Manchester; nel 1839 nacque la prima ferrovia italiana, la Napoli – Portici; nel 1902 la Transiberiana fu in grado di unire l’Europa con il porto di Vladivostok, sul Mar del Giappone, mentre intanto fra il 1870 e il 1910 veniva quadruplicata l’estensione della rete ferroviaria mondiale.
  • Contemporaneamente si aprivano nuove rotte di navigazione e facevano la loro comparsa i battelli a vapore, a cominciare dalla nave statunitense Sirius e dalla britannica Great Western che nel 1838 attraversarono l’Atlantico senza vele e con la sola forza del motore a vapore. Anche in Italia, sulle soglie degli anni ’40, apparvero le prime società di navigazione; fra esse: la “Società dei battelli a vapore siciliani”, fondata da un gruppo di capitalisti, di cui facevano parte Beniamino Ingham e Vincenzo Florio che successivamente fonderà per conto proprio l’impresa di navigazione “I. e V. Florio”

Il secolo XIX fu caratterizzato ancora dal commercio, dal liberalismo, dalla nascita del movimento operaio e dalle relazioni fra Stati. Tutto ciò in un clima europeo complessivamente pacifico.

 

L’Italia, il contesto europeo e le emigrazioni

L’Italia rimaneva fra gli ultimi Stati nella corsa alle colonie. La spiegazione è semplice, dato che fino al 1861 (1870, se consideriamo il suo ingresso nelle terre dell’ex Stato Pontificio)  essa era un insieme di Stati, divisi non solo dalla situazione politica, ma anche da quella finanziaria e infrastrutturale. Appena unificata, il suo bilancio era piuttosto vacillante a causa delle spese militari, sostenute durante le guerre risorgimentali, e di quelle necessarie per l’ammodernamento delle infrastrutture … e non aveva uno sviluppo industriale: le condizioni in cui versava la ponevano necessariamente fuori dalla gara per la conquista di colonie. Tuttavia, a partire dagli anni ’70 le industrie iniziarono un cammino di crescita, sviluppatosi poi, significativamente, dagli anni ’80 in avanti, in particolare dalla fine della depressione del 1873 – 1896.

A questo punto, anche gli Italiani cominciarono ad avvertire i problemi causati dalle conseguenze negative dell’industrializzazione.

La produzione di beni quantitativamente superiori alla richiesta dei mercati e di conseguenza invenduti da una parte e il costo di merci e derrate alimentari provenienti dall’estero, soprattutto dall’America, divenuto concorrenziale grazie alla navigazione a vapore, ai miglioramenti della navigazione a vela e alla disponibilità di navi enormi – i bastimenti – che attraversavano l’Oceano rapidamente, permisero prezzi contenuti che misero in crisi l’agricoltura.

Venne a mancare il lavoro ed ebbe inizio la grande emigrazione dalle campagne verso le fabbriche della città oppure verso l’estero.

La grande emigrazione italiana verso l’America ebbe inizio nell’Italia settentrionale, a seguito della grave crisi degli anni ’70. Essa interessò prevalentemente il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e il Piemonte.

Da lì, dopo il 1880, si estese massicciamente nell’Italia meridionale e insulare, da dove, nei decenni precedenti, molti emigranti erano partiti verso mete più facilmente raggiungibili, come il Nord Africa.

Si trattava di un’emigrazione definitiva, nel contesto di una gigantesca espansione degli Europei in Africa, Asia, Pacifico.  

A facilitare l’emigrazione verso l’America, furono le nuove tecnologie che permisero la costruzione di navi a scafo metallico, sempre più capienti, e la diminuzione di costi e di pericoli.

 

La situazione in Sicilia

 

In Sicilia le emigrazioni assunsero proporzioni sempre più impressionanti con lo scorrere degli anni. Fra le molteplici cause, come la sovrappopolazione, dovuta al miglioramento delle condizioni socio – economiche del Paese, e la diffusione del capitale industriale nelle Americhe e nelle colonie europee dell’Asia e dell’Africa, dove si crearono moltissimi posti di lavoro non qualificati, un ruolo significativo va attribuito anche alla mancata riforma agraria. La riforma agraria, se attuata, avrebbe potuto dare origine alla stipula di nuovi contratti agricoli, in assenza dei quali i contadini si trovavano in balia dei latifondisti, e avrebbe potuto portare ad una importante riduzione dei dazi doganali, i quali, favorendo le colture più povere, come il grano, danneggiavano quelle specializzate, quali vino, olio, frutta e ortaggi. A tutto ciò si aggiungeva un diffuso analfabetismo che pregiudicava la partecipazione di larghissima parte della popolazione alle decisioni nazionali lasciate così ai ceti istruiti. La maggior parte della popolazione, infatti, era analfabeta e la riforma elettorale, approvata dal Parlamento nel 1882, non poteva allargare di molto la sua partecipazione alla vita politica, dal momento che, pur innalzando il numero degli aventi diritto al voto, continuava ad escluderne molti fra operai e contadini. La legge del 1882, infatti, considerava elettori tutti gli uomini, a partire dai 21 anni d’età. Essi dovevano essere in grado di poter pagare almeno un’imposta di 19 lire o dovevano aver frequentato i primi due anni della scuola elementare. Nella vita reale, dunque, tale legge produsse pochissimi cambiamenti e molto spesso non ne fu neppure conosciuta l’esistenza, pur segnando un’evoluzione rispetto a quella dello Stato piemontese estesa a tutto il Regno d’Italia: in base ad essa era necessario essere in possesso di cittadinanza italiana, godere dei diritti civili e politici, avere compiuto 25 anni di età, saper leggere e scrivere e pagare un’imposta diretta di almeno 40 lire.

 

 

 L’arrivo in Sicilia di Garibaldi e i suoi primi provvedimenti

 

 L’arrivo di Garibaldi in Sicilia risvegliò l’antica speranza della divisione della terra. Egli,  infatti, in qualità di dittatore dell’isola, il 2 giugno 1860, su suggerimento di Crispi, emanò un decreto, firmato dallo stesso Crispi, per cui ad ogni combattente per la patria – cioè a chi avesse combattuto con i garibaldini – sarebbe stata assegnata una quota di terra dei demani comunali, in attesa di ripartizione:

Decreto dittatoriale 2 giugno 1860

 

GIUSEPPE GARIBALDI

Comandante in Capo le forze nazionali in Sicilia

DECRETA
art. 1 – Sopra le terre dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota certa senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la patria. In caso di morte del milite, questo diritto apparterrà al suo erede.

art. 2 – La quota di cui è parola all'articolo precedente sarà uguale a quella che sarà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti e le cui quote saranno sorteggiate. Tuttavia se le terre di un comune siano tanto estese da sorpassare il bisogno della popolazione, i militi o i loro eredi otterranno una quota doppia a quella degli altri condividenti.

art. 3 Qualora i comuni non abbiano demanio proprio vi sarà supplito con le terre appartenenti al demanio dello Stato o della Corona.

art. 4 – Il Segretario di Stato sarà incaricato della esecuzione del presente decreto.

 

Il decreto non teneva conto, però, di un diritto preesistente: era stato stabilito, infatti, che in ciascun comune i beni demaniali avrebbero dovuto essere divisi e assegnati, con sorteggio, fra i cittadini che ne avessero avuto diritto.

Era una legge che si rifaceva alla Costituzione concessa alla Sicilia nel 1812 dal re Ferdinando – III di Sicilia, IV di Napoli e I delle Due Sicilie, – su richiesta degli Inglesi presenti nell’isola. Essa riguardava anche l’abolizione del feudalesimo, abolizione accettata dagli stessi baroni.

Purtroppo, la divisione delle terre, pur sancita dalla Costituzione, non fu mai messa in opera e generò aspri conflitti per la definizione dei confini, per l’esistenza di diritti consuetudinari, non sempre riconosciuti o dimostrabili, ecc. Così nel 1841 Ferdinando II stabilì nuove procedure e affidò il compito di dividere e assegnare i terreni alle amministrazioni locali.

D’altro canto, Garibaldi e i suoi collaboratori, pur mostrando di voler risolvere i problemi dei contadini, non avevano intenzione né di sconvolgere i rapporti di proprietà, né di anteporre i problemi sociali alla lotta contro i Borboni. E così le terre baronali non furono toccate.

Molti democratici, fra cui Crispi, comprendevano le difficili condizioni dei contadini, ma sebbene avessero bisogno anche del loro aiuto, temevano maggiormente il venir meno dell’appoggio dei grandi proprietari, ai quali dovevano dimostrare di saper affrontare le agitazioni in atto e di saper proteggere le loro proprietà.

Il compito di Garibaldi dittatore fu, dunque, quello di ristabilire l’ordine anche con la forza; perciò furono emanati decreti specifici, riguardanti l’istituzione di tribunali militari sia per i reati militari che per quelli civili e fu introdotta la pena di morte non solo per l’omicidio, ma anche per il furto, per il saccheggio e per alcuni crimini contro l’ordine pubblico.

Al provvedimento di Garibaldi seguirono, dunque, manifestazioni violente in diversi punti della Sicilia. I risvolti più drammatici e sanguinosi si registrarono nei paesi etnei di Biancavilla e di Bronte. Qui, migliaia di contadini, ormai esasperati dalla mancata divisione delle terre, il primo agosto del 1860 invasero le strade e, mentre a nessuno veniva più permesso di uscire dalla città, assaltarono municipi, case, proprietà private e anche i beni dell’amministrazione della Ducea di Nelson.

 

La Ducea risaliva al 1799, quando re Ferdinando, a causa dell’ingresso delle truppe francesi a Napoli e della successiva proclamazione della Repubblica Partenopea, fuggì a Palermo a bordo della nave ammiraglia Vanguard di Nelson. Il re per ricompensare l’ammiraglio, lo nominò duca di un’estesa tenuta a Bronte. Né Nelson, né i suoi discendenti Bridport, che la ereditarono, videro mai quel feudo.

Gli Inglesi, di fronte della ribellione del primo agosto 1860, chiesero a Garibaldi di ripristinare l’ordine. Garibaldi, in partenza per Napoli e Roma, incaricò Nino Bixio.

Quest’ultimo ebbe il compito di intervenire per risolvere la situazione a Bronte e per riportarvi la tranquillità anche more bellico. Bixio che, oltre ad essere un generale come Garibaldi, era anche presidente del Tribunale di guerra, si comportò come tale, occupando militarmente il paese, procedendo all’arresto dei presunti colpevoli, processandoli senza possibilità di difesa e condannandoli a morte mediante fucilazione. Il fatto fu considerato rappresaglia e suscitò indignazione, causando gravi conseguenze per lo stesso Garibaldi.

 

Di seguito alcuni brani da “La libertà” in cui Verga fa riferimento a quanto accaduto in quei giorni:

“…

Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse…

Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.

… Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.

Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo – ahi! – ogni volta che mutavano lato.

Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale.

Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: – Sul mio onore e sulla mia coscienza!…

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!…”

 

La riforma agraria in realtà non interessava né ai poteri politici né ai grandi latifondisti – espressione politica della Sicilia a Roma – “la rappresentanza parlamentare siciliana era quasi totalmente costituita da grandi proprietari terrieri … e da grandi professionisti.” 1

Essi, ministerialisti, facilmente erano in grado di evitare che la riforma venisse attuata, grazie anche ai voti che in cambio assicuravano ai governi centrali.

 

“… i soli atti ad avere e usare influenza ed autorità di qualunque genere erano i membri della scarsissima classe abbiente insieme con quei pochi che alla mancanza di ricchezza supplivano colla svegliatezza di mente e coll’astuzia, e fra loro, quelli che s’erano acquistata e sapevano conservarsi la preponderanza. … [A siffatta] classe dirigente … lo Stato italiano affidò … l’amministrazione del patrimonio pubblico … si rimise nelle mani loro per conoscere i lamenti, i bisogni, i desiderii dell’intera popolazione dell’Isola. … nella pratica si sottopose alla loro autorità; perché deve fare i conti con i desiderii e le domande dei deputati, ai quali dal canto loro conviene appoggiarsi sulla classe influente dell’Isola per non perdere il collegio” 2

 

A ciò si aggiungevano fatti contingenti e scelte finanziarie: da una parte, la fillòssera che aveva infestato l’Europa, causò la distruzione di interi vigneti, sostituiti da coltivazioni di minor pregio, come il frumento – scelta incoraggiata anche dalle tasse doganali imposte al grano proveniente dall’estero; dall’altra parte, una tassazione molto pesante rendeva antieconomica la distillazione dei vini. La gravità del danno conseguente a tale tassazione si può valutare, se si pensa che vi erano impiegati ingenti capitali, macchinari spesso all’avanguardia, manodopera specializzata, imprenditori e artigiani di grande esperienza. Inoltre, piccole e medie industrie erano sparse in quasi tutta la regione e andavano crescendo di numero in relazione all’estensione dei vigneti. Con la distillazione si riuscivano a recuperare non solo le eccedenze di mercato, ma soprattutto i prodotti scadenti.

Come quello di cui si è appena detto, altri settori produttivi risentirono di provvedimenti sfavorevoli.

  Lo stesso Ignazio Florio, erede di un’industria vinicola di fama internazionale risalente agli anni trenta dell’Ottocento, divenuto senatore del regno, “invece di promuovere il sorgere di un partito industriale isolano, …, si schierò a sostegno del partito agrario e mise il suo prestigio e la sua borsa al servizio dell’ambizioso progetto di raccogliere le frazioni sparse della classe dominante isolana attorno alla bandiera degli interessi agrari siciliani …” 3 

Conseguenze negative per l’isola ebbe anche il Congresso di Berlino del 1878, convocato per risolvere la crisi balcanica, nata perché l’Impero ottomano si era indebolito a causa della guerra contro la Russia. Purtroppo, infatti, dopo il Congresso le relazioni con la Francia peggiorarono, subendo subito dopo un ulteriore colpo, quando la Francia ottenne il protettorato sulla Tunisia, a cui aspirava l’Italia sia per la vicinanza geografica che per la presenza di una forte comunità di Italiani, soprattutto siciliani. Durante i lavori del Congresso, da una parte il ministro degli Esteri tedesco Bülow invitò Corti, ministro degli Esteri italiano, a pensare all’occupazione di Tunisi, dall’altra, Bismarck lasciò la Francia libera di agire in Tunisia con lo scopo sia di distoglierla da mire di conquista in Europa, sia di creare problemi fra lei e l’Italia. Si aprì allora una guerra commerciale che pregiudicò lo smercio dei prodotti agrari e minerari, provenienti dalla Sicilia.

La cosa fu molto grave per l’isola, visto che Francia e Inghilterra ne costituivano i mercati preferenziali per quanto riguardava le produzioni agricole pregiate, lo zolfo, il sale.

La guerra commerciale si aggravò poi, quando, nel 1887, si costituì il blocco agrario meridionale, per un verso contrapposto al blocco industriale settentrionale, ma per altro verso suo alleato: furono allora varate e applicate nuove tariffe doganali che aggravarono il commercio con la Francia e causarono gravissime conseguenze.

A ciò si aggiunse la rivoluzione industriale del nord che causò un ulteriore motivo per l’emigrazione transoceanica del sud, dato lo squilibrio economico creatosi fra settentrione e meridione.

 

L’emigrazione

 

Gli emigranti appartenevano a quasi tutte le regioni italiane, ma provenivano in massima parte dal mezzogiorno della penisola. Essi si aggiunsero a quelli già partiti da altri stati europei verso l’America, durante le ricorrenti crisi economiche degli anni precedenti; primi fra essi i contadini provenienti dall’Inghilterra, dall’Irlanda e dall’Europa centrale, anch’essi disoccupati a causa delle crisi agrarie.

 

“ … verso la fine degli anni 1830 cominciarono ad arrivare numerosi nella Terra Promessa gli emigranti – in maggior parte Tedeschi, Irlandesi e Olandesi.

In Europa a quel tempo le condizioni erano cattive, e i nuovi industriali americani, che consideravano la manodopera indigena troppo indipendente, riguardo ai salari e all’orario di lavoro, inviarono agenti in Irlanda e sul continente per attrarre là negli Stati Uniti la povera gente con racconti fantastici di montagne d’oro e di libertà e di opportunità senza limiti. … .” 4 

 

Per quanto riguarda le ondate migratorie siciliane degli anni ’80 – ’90, vanno tenute in conto certamente le cause economiche, legate alla crisi dell’agricoltura, alla crisi del commercio zolfifero per la concorrenza americana, all’impossibilità di uno sviluppo industriale, alla decadenza anzi di attività industriali fiorenti come quelle dei Florio; vi assumono, tuttavia, grandissima rilevanza anche gli aspetti culturali.

“Emigra chi è più colto e istruito, più audace e ardito, più determinato nei propositi e fiducioso nel domani. Perciò, la scelta cade su quelle parti del mondo – America del Sud e  America del Nord, ove più accelerato si presenta lo sviluppo e più ampia risulta la fascia delle opzioni personali.” 5 

Nell’America del sud l’inserimento fu meno traumatico dal momento che lingua, religione e abitudini alimentari ricordavano quelle di casa; in quella settentrionale, al contrario, l’inserimento fu molto difficile e a volte non avvenne, dando come risultato la creazione di quartieri – isola dove i nuovi arrivati ricreavano il loro ambiente originario. Anche i luoghi di lavoro che li aspettavano nell’America del nord erano molte volte problematici. Gli Italiani giungevano a destinazione dopo un viaggio interminabile, estenuante, senza assistenza di alcun tipo. I transatlantici, ben curati e ben allestiti sulle prime, con il passare degli anni diventavano sempre più trasandati e pericolosi. Disagi e sofferenze patiti durante il percorso causavano necessità di assistenza e ricoveri una volta sbarcati. Di tale situazione l’America si lamentava a causa delle spese che doveva sostenere per le cure. Fu per questo motivo che spesso le compagnie venivano “multate”.

Quasi sempre erano i boss a trovare lavoro e un luogo dove abitare agli emigrati, specie se chi arrivava non aveva né parenti, né amici ad attenderli; il tutto a prezzo di sopraffazioni e pagamento di tangenti.

Anche i problemi sociali erano numerosi e gravi: scioperi, attentati, violenze e prepotenze erano all’ordine del giorno. Si lottava per una paga migliore e per la riduzione dell’orario di lavoro.

“… Alcuni sindacati … avevano deciso, nel 1884, di promuovere una grande campagna per le otto ore; il 1° maggio 1886 era stato scelto come giorno della manifestazione. …” 6 

Molti dei lavoratori che da tempo erano arrivati in America da vari stati europei, erano già sindacalizzati o in qualche modo organizzati, preparavano manifestazioni anche violente e attacchi dinamitardi; spesso, inoltre, bloccavano i treni che trasportavano merci e passeggeri e fermavano il lavoro nelle fabbriche. I migranti che arrivavano in ondate successive, come gli italiani, non ponevano problemi ed erano molto bisognosi; essi venivano inseriti presto nei luoghi di lavoro a condizioni estreme, in sostituzione o a preferenza della manodopera organizzata:

“… con gli immigranti che arrivavano a frotte, rozzi e refrattari ad ogni organizzazione, pronti ad assumere qualsiasi lavoro per qualsiasi paga, a lavorare dodici o quattordici ore al giorno, …” 7   

 

 – Le rimesse degli emigranti

 

L’emigrazione siciliana verso la lontana America, sia del nord che del sud, ebbe un risvolto positivo per l’economia generale italiana.

“Tra gli effetti considerati benefici dell’emigrazione all’estero vi è l’afflusso di denaro pregiato, frutto del risparmio che a prezzo di enormi sacrifici realizzano i lavoratori espatriati. … Si calcola che le rimesse degli emigranti siciliani si avvicinino e anzi tocchino i cento milioni annui. In un quindicennio, quindi, affluisce nell’isola una massa monetaria, in dollari, valutabile intorno al miliardo di lire. E’ un apporto di ricchezza che si aggiunge al monte dei redditi ottenuti nell’isola nei vari settori produttivi. Considerato che il prodotto lordo vendibile ricavato dall'industria zolfifera si aggira sui trentacinque milioni annui, è come fosse stata avviata una nuova industria due – tre volte più grande della mineraria.” 8 

 

 – Ma come venivano impiegati in patria quei capitali?

 

Le rimesse degli emigrati meridionali e siciliani, depositate nelle banche dei loro paesi d’origine e quasi mai investite opportunamente in loco, finanziando, per esempio, gli ammodernamenti dei possedimenti terrieri, in vista di un miglior rendimento,  erano destinate a sovvenzionare le industrie settentrionali, per l’acquisto di materie prime e di tecnologia nel mercato internazionale. Lo Stato, inoltre, utilizzava tali depositi per costituire il capitale necessario, con cui la Cassa depositi e prestiti finanziava la costruzione di infrastrutture nelle regioni del nord.

L’Italia d’altronde, inserita ormai in un contesto europeo di corsa agli armamenti, necessitava di un buon arsenale militare e di buone fortificazioni, per elevare il suo livello di sicurezza e per conquistare colonie; di conseguenza aumentò le spese militari e favorì l’industria pesante.

La Sicilia, anche a causa della sua posizione geografica, non ricevette nessun beneficio dall’accresciuta richiesta di lavoro industriale. Neppure il porto di Messina poté essere utilizzato per le esigenze militari dello Stato, a causa delle insufficienti garanzie di sicurezza, trovandosi sullo Stretto, via d’acqua internazionale, pur essendone stata programmata e realizzata la fortificazione sia sulla sua sponda siciliana che su  quella calabrese.

 – Vi è pure una migrazione interna:

“… Agli intellettuali le offerte sono più varie ed appetibili. Fuori dalla Sicilia, a Roma, nel Nord, vi è sufficiente spazio all’esercizio delle loro funzioni professionali o al soddisfacimento delle loro ambizioni. Preferiscono, dunque,  l’emigrazione interna, privilegiano la grande capitale, centro della politica, degli affari, degli impieghi statali, oppure optano per le regioni ove è in corso il primo consistente processo di trasformazione industriale del paese.” 9 

 

La vocazione coloniale dell’Italia: la Tunisia

 

Intanto fra gli Italiani si andava affermando la convinzione che l’Italia non fosse inferiore agli altri grandi Stati e si considerò importante che essa si conquistasse un posto nel consesso delle grandi potenze. Per guadagnare il “prestigio” necessario, fu intrapreso, allora, il cammino verso il colonialismo e l’Imperialismo, seppure “Imperialismo straccione”, come fu definito da Lenin nel 1916.

Fu in questo contesto che si maturò in un primo tempo la strategia di uno sbocco coloniale non militarista in Tunisia, a cui l’Italia aveva rivolto le sue attenzioni in modo particolare dopo il 1869, quando, in seguito all’apertura del canale di Suez, Tunisi con Biserta, fu considerata base navale strategica. D’altra parte in Tunisia si erano già stabiliti da parecchio tempo molti Italiani, soprattutto siciliani provenienti dalla Sicilia occidentale.

Consapevole del numero elevato degli Italiani ivi residenti, spinta dalla Reale Società geografica italiana che nel 1875 aveva organizzato missioni “scientifiche” a scopo politico anche in Tunisia, dai circoli espansionisti italiani che ne avevano fatto il loro obiettivo coloniale, e dal mondo della finanza, fu verso quella terra che l’Italia volse il suo interesse.

Prestissimo, però, dovette scontrarsi con la Francia e cedere di fronte a tale fortissimo concorrente.

In Tunisia si incontravano gli interessi economici e strategici sia dell’Italia che della Francia, la quale, per di più, la rivendicava in quanto confinante con l’Algeria in suo possesso ormai da molti anni. Le banche europee avevano fatto numerosi prestiti alla Tunisia che aveva avviato ambiziosi programmi di ammodernamento, ma le iniziative non avevano mai avuto fortuna sia per le poche risorse locali, sia per la sua amministrazione inadeguata e corrotta. La situazione causava il malcontento della popolazione, mentre contemporaneamente il debito con le banche europee saliva a livelli altissimi. La Francia pensò di doversi tutelare in previsione di una possibile bancarotta e decise di intervenire militarmente, incoraggiata, come abbiamo visto, anche dalle decisioni del Congresso di Berlino del ’78, dove le grandi potenze si schierarono in suo favore. Approfittando di un incidente avvenuto nella primavera del 1881 ai confini con l’Algeria, inviò un contingente militare a Tunisi e impose al bey un regime di protettorato.

L’attenzione dell’Italia si rivolse allora verso l’Africa orientale e infine alla Libia, mentre ogni preoccupazione verso gli Italiani emigrati in colonie non italiane lentamente svanì ed essi non entrarono nemmeno nelle storie coloniali.

 

L’emigrazione italiana dell’Ottocento in Tunisia

 

La presenza di cittadini provenienti dalla penisola italiana è attestata in Tunisia nel corso di quasi tutte le epoche storiche. Di rapporti, poi, instaurati nei secoli fra la marineria siciliana e quella magrebina, legati in particolare al commercio del corallo, si trova testimonianza anche nel libro di Alfonso Campisi Memorie e racconti del Mediterraneo – L’emigrazione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo.

Tra i primi cittadini dell’Italia preunitaria che lasciarono la penisola alla volta della Tunisia, vi furono gruppi di Genovesi i quali, partiti intorno al XVI secolo soprattutto da Pegli, si fermarono sull’isola di Tabarca, di fronte a Tunisi. Qui coltivavano i coralli che vi si trovavano, per praticarne il commercio con la madrepatria, che li rivendeva poi a caro prezzo in Europa.

Esauritisi i banchi corallini e deterioratisi i rapporti con le popolazioni arabe, molti dei coloni genovesi, su invito di Carlo Emanuele III, nel 1738, si recarono in Sardegna e si stabilirono sull’isola di San Pietro, allora disabitata. Lì fondarono un nuovo comune, a cui, in onore del re, diedero il nome di Carloforte. Quanti rimasero in Tunisia, furono considerati schiavi.

Alla fine del XVI secolo anche alcuni ebrei, che dopo varie peregrinazioni si erano stabiliti a Livorno, instaurarono rapporti commerciali con il Nordafrica. Le loro attività crebbero tanto di importanza, che i livornesi in un primo tempo crearono filiali a Tunisi e successivamente, nel corso del XVII secolo, decisero di trasferirsi lì in modo stabile con le loro famiglie, continuando a dedicarsi al commercio e mantenendo contatti con gli ebrei di Livorno o Grana ( termine arabo per indicare i Livornesi di Livorno).

Nel corso dell’Ottocento emigrarono in Tunisia anche molti Grana. Accanto ai correligionari tunisini, da cui ormai si distinguevano per la loro cultura europea e soprattutto italiana,  continuarono a svolgere attività di commercianti e banchieri. La loro influenza sugli ebrei tunisini benestanti fu tanto forte che questi ultimi impararono a parlare e a scrivere in italiano correttamente.

Sempre nell’Ottocento,  a partire dagli anni della Restaurazione e in concomitanza con i movimenti che portarono all'unificazione dell'Italia, molti esuli politici cercarono riparo in Tunisia; fra essi, dal 1821 al 1824, i carbonari. Chi arrivava dall’Italia meridionale e dalla Sicilia, spesso lo faceva clandestinamente, così come clandestinamente ne ripartiva.

Dagli anni Venti dell’Ottocento aumentò anche l’arrivo dei lavoratori stagionali e questo permise mescolanza e confusione fra i due gruppi.

Falliti i moti del ’30, fu la volta di altri esuli dall’Italia settentrionale, centrale e meridionale; fra questi si distinsero personalità di rilievo, che contribuirono alla nascita e all’organizzazione di strutture scolastiche civili e militari. Lo stesso  Garibaldi, condannato a morte in contumacia, riparò in Tunisia.

Il flusso degli esuli dall’Italia continuò incessante fino all’Unità. Arrivarono soprattutto Siciliani, data la vicinanza geografica e le continue rivolte isolane duramente represse; quando, per esempio, la rivolta del ’48 sconvolse l’isola, essi cercarono protezione presso il console piemontese a Tunisi, non riconoscendo più l’autorità del console napoletano.

In conclusione, dal 1815 al 1861 circa nella Reggenza di Tunisi si rifugiarono molti attivisti politici, massoni e intellettuali, provenienti dal centro e dal settentrione dell’Italia; ma in Tunisia giunsero anche anarchici, democratici, repubblicani, mazziniani, carbonari, ex-napoleonici a seguito del fallimento dei moti rivoluzionari italiani.

 

Ormai la lingua italiana era fra quelle più conosciute e parlate in quel lembo d’Africa e molti esuli la insegnavano sia ai bambini italiani che a quelli tunisini.

Molti poterono riprendere le attività e le professioni che svolgevano in patria; altri, seguendo l’esempio dei livornesi, cominciarono a esportare e a importare prodotti tipici. Con il tempo richiamarono le famiglie e si formarono famiglie nuove, i cui sposi provenivano da regioni italiane geograficamente molto distanti fra loro.

Tutti continuarono a interessarsi ai problemi e agli avvenimenti della madrepatria: fu raccolto e inviato denaro anche per emergenze ambientali; vi furono attivisti politici, si formarono logge massoniche e nacque una sezione della Giovane Italia; furono raccolte armi e spedite in Sicilia per i Mille, assieme a denaro.

La prima ondata di emigranti siciliani, dunque, quella del ventennio pre e post unificazione, proveniente in massima parte dalla Sicilia occidentale, si diresse verso le coste settentrionali dell’Africa, soprattutto in Tunisia. Quella parte dell’Africa, infatti, era più facilmente raggiungibile di quella americana, le sofferenze del viaggio erano minori e da lì il ritorno a casa sarebbe stato più facile e veloce.

Numerosi furono anche quanti si recarono in Algeria, in Egitto e in Marocco. Pochissimi coloro che scelsero la Tripolitania o la Cirenaica.

 

Accanto a questi italiani, vi erano anche molti cristiani catturati e resi schiavi dai corsari tunisini che per la loro attività si muovevano nelle acque del Mediterraneo. Infatti, fino ai primi anni dell’Ottocento era cosa frequente incontrare pirati nel Mediterraneo e la Sicilia era una delle mete preferite tanto che ne furono penalizzati anche i commerci e il trasporto dei passeggeri.

Negli anni ’60 dell’Ottocento, fra i collegamenti convenzionati dallo Stato con la Società Florio, ve ne era uno, a cadenza quindicinale, per Tunisi, via Trapani.

 

Se fino alla metà circa del XIX secolo, la comunità degli Italiani era formata in buona parte da mercanti, banchieri, liberi professionisti, esuli politici, tutte persone in gran parte di buon livello culturale e, in alcuni casi, di elevato tenore di vita, gli Italiani che arrivarono in seguito, dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti, appartennero a classi più povere sia economicamente che culturalmente. Moltissimi fra questi immigrati erano sostanzialmente braccianti, manovali, minatori e pescatori  provenienti prevalentemente dalle isole – Sicilia occidentale, Pantelleria, Sardegna, Procida …  e da altre regioni meridionali gravate da grossi problemi economici.

In poco tempo le loro condizioni economiche migliorarono notevolmente, essi divennero un elemento maggioritario e diedero vita al quartiere della “Piccola Sicilia”. Vissero pacificamente accanto alla popolazione autoctona e vi furono spesso matrimoni misti con scambi culturali. 

Questa emigrazione corse parallelamente ai flussi migratori che si dirigevano verso le Americhe, facilitati dalle navi a vapore e dai transatlantici che solcavano l’Atlantico. Le compagnie di Rubattino e di Florio, oltre al trasporto di merci, garantivano, infatti, il trasporto di passeggeri che non avrebbero più rivisto la loro patria e i loro affetti se non saltuariamente; emigrati che con grossi sacrifici e grandi rinunce cercarono di garantire un futuro migliore non solo a sé e alle nuove famiglie, ma anche alle famiglie d’origine: “cu nesci rinesci” sarebbe stato da quel momento il convincimento e il detto popolare di molti paesani (Chi emigra, o all’estero o in patria, sicuramente farà fortuna con facilità).

 

Nel 1896 l’accordo franco – italiano, confermando lo status quo degli Italiani, a suo tempo definito dal trattato italo – tunisino del 1868, e stabilendo uguaglianza di trattamento fra Italiani e Francesi, per quanto riguardava i diritti civili, contribuì a migliorare i rapporti fra le due comunità fino alla conclusione della Grande Guerra.

 – Dopo l'Ottocento

Anche dopo l’Ottocento il numero degli Italiani in Tunisia è stato considerevole, superando quello dei francesi.

I Siciliani, pur acquisendo nel tempo caratteri culturali tunisini, chiari in particolare nei prestiti linguistici, mantennero complessivamente le loro tradizioni, coinvolgendo in esse anche la gente del posto: la festa dell’Assunta del 15 Agosto, per esempio, a La Goulette come tuttora a Trapani, aveva il suo momento culminante nella processione della Madonna.

Così come d’abitudine a Trapani, la statua dell’Assunta veniva portata per le viuzze della città; ai Siciliani si univano anche musulmani ed ebrei praticanti, mentre i Francesi, per mantenere la loro superiorità anche in campo religioso, nel 1910 proclamarono Giovanna d’Arco protettrice de La Goulette.

Scambi culturali in genere e linguistici in particolare avvenivano naturalmente in entrambe le direzioni. Furono soprattutto le parole della pesca, dell’agricoltura e della falegnameria – mestieri a cui prevalentemente si dedicavano i Siciliani – ad essere apprese dai Tunisini; anche nell’arte e nell’architettura si ritrova spesso l’impronta della nostra penisola. Alla Goletta, infatti, sono rimaste costruzioni in stile liberty e molte espressioni siciliane sono usate ancora dai Tunisini più anziani.

La comunità italiana scomparirà quasi completamente dalla Tunisia fra il 1943 e il 1970, dopo che ne verrà dichiarata l’indipendenza. Partita dalla Tunisia, per “ritornare” in Italia, la comunità, formata ormai prevalentemente da persone nate e cresciute in quel lembo di terra, subì un grosso trauma sotto molti aspetti: da molte testimonianze emerge spesso una mancanza di autoriconoscimento nella realtà italiana che comunque non poteva appartenere  a persone che non vi erano mai vissute, pur riconoscendola come la patria dei loro genitori e/o dei loro nonni. D’altra parte l’Italia non offrì loro che una fredda accoglienza, anzi spesso ostile, al “rientro”, e spesso, dopo viaggi lunghi e estenuanti, li ospitò in campi profughi, sporchi e male attrezzati, dove soffrirono per la fame, per la sete e per il freddo, tanto che quei profughi ebbero la sensazione di essere ospitati in campi di concentramento.

 

Dall'intervento del Prof Alfonso Campisi al POMERIGGIO CELEBRATIVO della LINGUA SICILIANA – Palermo 17 Gennaio 2018:

 

 

Il Prof. Alfonso Campisi è docente di Filologia italiana e romanza alla Facoltà di Lettere dell’Università de la Manouba – Tunisi

                                                  

                                                                                                                                                               Note

 

1  –  F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. 2, Sellerio Editore Palermo, p. 244 torna su

2 –  L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Donzelli Editore,  p. 87 – 88 torna su

3 –  F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, vol. 3, Sellerio Editore Palermo, p.1093 torna su

4L. Adamic, Dynamite, Bepress, p. 8 – 9 torna su

5     F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Sellerio Editore Palermo, vol. 2, p. 290 torna su

6 –   L. Adamic, Dynamite, Bepress, p. 49 torna su

7 –  L. Adamic, Dynamite, Bepress, p. 22 torna su

8 –  F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. 2, Sellerio Editore Palermo, p.273 – 274 torna su

9 –  F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. 2, Sellerio Editore Palermo, p.290 torna su

 

BIBLIOGRAFIA

 

                                                                                                                                                                     © Antonina Orlando 17 Maggio 2018

 

 

SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 3

SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 2

PARTE SECONDA

 I FORTI UMBERTINI a MESSINApianta-forti

 Contesto storico e ubicazione                 

 

 Nella seconda metà dell’Ottocento i governi delle grandi  e piccole potenze pensavano soprattutto ad affermare la propria forza economica e militare, entrando in competizione gli uni con gli altri, stringendo e rompendo alleanze, in un gioco non sempre chiaro, ma sicuramente pericoloso.

Lo sviluppo economico, le nuove tecniche nel campo produttivo, l’evoluzione degli studi scientifici in ogni settore del sapere, l’applicazione delle scoperte su larga scala industriale, rendevano la società sempre più esigente e si acuivano nel contempo le problematiche sociali, già delineatesi nel corso della prima Rivoluzione Industriale.

La causa prima delle crisi economiche che ciclicamente colpivano l’Europa occidentale, non era più da ricercarsi nell’agricoltura, ma nella sovrapproduzione dei prodotti industriali che non si riuscivano a vendere nei luoghi di produzione. Le crisi, nate da una questione di mercato, si estendevano, poi, al mondo finanziario, generando un grosso groviglio di interessi economici, finanziari e politici.

Gli spazi commerciali diventavano sempre più stretti e i paesi che da antica data rifornivano di materie prime le potenze del vecchio continente, ne divennero anche i mercati, in cui esse vendevano i prodotti finiti e in cui investivano. Verso la fine dell’Ottocento il numero di questi paesi non fu più sufficiente, e se ne cercarono altri, conquistandoli militarmente.

La maggior parte del commercio mondiale continuava a svolgersi tra paesi industrializzati; tuttavia, avere il maggior numero di colonie possibile diventava ora non solo una necessità economica di privati, ma  una forma di prestigio nazionale e di sicurezza militare, dal momento che ogni colonia rappresentava una miniera di materie prime, una enorme piazza di smercio di manufatti, nuove possibilità di investimento e una riserva militare per le campagne belliche.

Protezionismo e Nazionalismo caratterizzarono quell’ultimo scorcio di Ottocento, mentre si andava affermando con forza sempre maggiore l’idea della “superiorità della razza bianca”.

Divenne così necessario per ogni Stato armarsi per conquistare e per difendersi. I governanti dei grandi Stati si affidarono ai suggerimenti di alti ufficiali, il cui potere decisionale andò aumentando vertiginosamente: vennero riformati gli eserciti, venne incrementato il lavoro delle industrie belliche e gli stessi militari ebbero facoltà di disporre autonomamente degli armamenti.

Non solo, si ricorse anche a fortificazioni che proteggessero i confini da eventuali generale-cavalliinvasioni nemiche.

Ingegneri militari furono chiamati a costruire nuove fortezze o a riadattare vecchi forti, non più capaci di affrontare gli assalti delle armi moderne e dei nuovi mezzi, che assieme agi aerei, sarebbero entrati  in una guerra sempre più vicina.

Nel 1844, per esempio, il Generale piemontese Giovanni Cavalli con l’introduzione della rigatura interna della bocca da fuoco, abbandonò la classica palla di cannone sferica, utilizzando il proiettile di forma ogivale. Questo proiettile si adattava perfettamente all’anima dell’arma, facendo in modo che venisse eliminato il “vento”, cioè lo spazio, tra il diametro del proiettile rotondo e quello dell’anima interna del cannone. Così fu annullata la sfuggita laterale del gas al momento dello sparo e aumentarono non solo la potenza e la gittata dell’arma – che riusciva a colpire a una distanza praticamente doppia di quella fino allora possibile –, ma anche la precisione dei tiri e la grossezza dei calibri. L’innovazione di Cavalli, introdotta definitivamente nelle campagne del 1860 – 1861, rispettivamente a Gaeta e a Messina, e utilizzata da tutte le artiglierie moderne, influì enormemente sulla potenzialità delle nuove armi, costringendo i Governi a rivoluzionare tutti i sistemi di attacco – difesa.

Anche l’Italia, dove ormai fra larghe sacche di arretratezza nascevano industrie moderne, non solo nel triangolo industriale formato da Piemonte, Lombardia e Genova, ma anche in altre regioni, come la Lanerossi a Schio (Vicenza), e le iniziative industriali dei Florio nella Sicilia occidentale, comprese che per essere considerata una potenza, doveva diventare un Paese di conquistatori e doveva provvedere a consolidare i suoi confini.

Alla pari delle altre grandi potenze, dunque, anche l’Italia pensò ad un’adeguata difesa militare; tanto più che con la Francia vi erano forti tensioni, sia per la sua politica espansionistica in Africa, sia per motivi legati al periodo risorgimentale, mentre d’altra parte nel Mediterraneo si aggiravano navi inglesi e tedesche, in concorrenza commerciale fra di loro. Inoltre la Francia, in urto con la Germania dopo la sconfitta del 1870 e la perdita dell’Alsazia e della Lorena, disseminava quella frontiera di anelli di forti; lo stesso faceva la Germania lungo la stessa frontiera; il Belgio costruiva fortificazioni ad Anversa, e molti altri Stati munivano anch’essi i loro confini.  

Stando così le cose ed essendoci preoccupazione per la crescente tensione politica fra le potenze europee, il Governo italiano decise di realizzare opere di fortificazione, nominando delle Commissioni di studio, composte da alti ufficiali dell’Esercito e della Marina, con l’incarico di realizzare strutture di difesa nei punti nevralgici della penisola, comprese le coste mediterranee. Nel 1887, inoltre, fu stipulata una Convenzione Militare tra l’Italia e la Germania, fra il Presidente del Consiglio italiano, nonché Ministro degli Esteri, Francesco Crispi e il cancelliere tedesco Bismarck, in base alla quale l’Italia, già legata alla Germania dalla Triplice Alleanza, avrebbe dovuto essere pronta a combattere contro la Francia, qualora questa assieme alla Russia, avesse attaccato la Germania.

Subito dopo l’Unità d’Italia, dal 1861 al 1889 furono presentati vari progetti di campi trincerati, tra cui quelli realizzati a Mestre, Verona e Terni, ma molti di essi rimasero sulla carta. Una delle opere più imponenti per numero di forti ed estensione territoriale fu quella dei Forti Umbertini, sorti a difesa dello Stretto di Messina, importante punto strategico sia militare che commerciale.

Messina non era nuova ad opere difensive; già i Normanni, per esempio, si erano preoccupati di rafforzarne il sistema di difesa, vista l’importanza raggiunta dal porto, così come anni dopo fecero gli Svevi.

Con la ristrutturazione cinquecentesca di Carlo V, poi, Messina divenne una città – fortezza. Infatti, a quel tempo, i Turchi miravano ad espandere il loro dominio in Sicilia. Essi la consideravano di loro proprietà e pensavano di poterla conquistare facilmente; nella loro cartografia, anzi, la rappresentavano già araba, prima ancora di averla occupata.

Non avevano valutato, però, la presenza e gli interessi degli Spagnoli, che nel 1537, seguendo la configurazione fisica del territorio, fecero erigere imponenti mura di difesa, adatte a contrastare le armi dei nemici. I Turchi furono sconfitti a Lepanto nel 1571 e svanì il pericolo di un loro attacco.

Nel Museo di Forte Cavalli, di cui si parlerà più avanti, fra le varie piante della Sicilia, si trova una mappa inedita dell’Archivio di Stato di Napoli, realizzata nel Cinquecento da Piri Reis, un cartografo turco, ammiraglio di Solimano, il Magnifico. In essa Messina con tutta la Sicilia e con lo Stretto, è rappresentata come già araba, in piena dominazione spagnola.  

Nell’Ottocento, però, le fortificazioni volute da Carlo V e adatte a contrastare le armi del suo tempo, non servirono più, perché non potevano opporre nessuna resistenza contro la nuova artiglieria navale. Per questo le Commissioni nominate da Umberto I dal 1861 al 1889 ne studiarono di più idonee.

Nacquero così i nuovi Forti, che dovevano servire a proteggere lo Stretto di Messina; alcuni di essi (14) furono costruiti sui Peloritani, altri (9) lungo la costa calabra1

Essi, chiamati anche Forti Umbertini, facevano parte del Piano Generale di Difesa dello Stato. 

Sullo Stretto venne a crearsi in questo modo una rete di sorveglianza praticamente ineludibile; se qualcuno avesse tentato di attraversarlo senza autorizzazione, avrebbe dovuto affrontare il fuoco proveniente dai Forti.

 

In visita a Forte Cavalli  targa-ingresso

Visitare i Forti dei Peloritani significa entrare in un mondo particolare, dove l’austerità della costruzione militare, ben inserita e mimetizzata nella natura, fa da contrappunto al suggestivo spettacolo dello Stretto.

Dalla cinta muraria si ammirano contemporaneamente il fondersi del variegato azzurro di due mari, il Tirreno e lo Ionio, le pendici dell’Aspromonte sulla costa calabra, con  promontori e insenature, e la caratteristica lingua di terra a forma a falce (zanclon in siculo), che racchiude il porto di Messina e che le ha dato in passato il nome di Zancle.

I Forti Umbertini furono costruiti fra il 1882 e il 1892 dallo Stato Maggiore del Regio Esercito Italiano; l’ultima batteria da costa, quella di Sbarre, a sud di Reggio Calabria, fu ultimata alla vigilia dello scoppio della Grande Guerra.

Abbandonati dopo la Seconda Guerra Mondiale, lasciati al degrado e adibiti a stalla dai pastori del luogo, sono fatti segno in questi ultimi anni di grande attenzione. Associazioni di studiosi li vanno restaurando e li ripropongono all’attenzione del mondo culturale. Nove di essi sono già visitabili e spesso ospitano attività culturali, scolaresche e scout.

 

Mantano ha visitato uno dei Forti restaurati, Forte Cavalli, oggi proprietà del Demanio, dato in concessione nel 2000 all’Associazione “Comunità Zancle” ONLUS che se ne è presa cura, lo ha rimesso a posto e lo ha riconsegnato alla cultura. Esso è anche sede del Museo Storico della Fortificazione Permanente dello Stretto di Messina, realizzato dal Centro studi e Documentazione “Forte Cavalli” e inaugurato nel maggio 2003. Luogo di educazione alla Pace, è oggi sotto il patrocinio dell’UNESCO.

Il  direttore del Museo, Prof. Vincenzo Caruso, docente di matematica e fisica nei licei messinesi e cultore di storia militare legata allo Stretto di Messina, da molti anni fa ricerche presso gli archivi militari italiani per riscoprire la storia delle fortificazioni militari intorno allo Stretto. Egli collabora inoltre “con esperti del coordinamento del Recupero del campo Trincerato di Mestre e di varie città fortificate italiane ed europee”.

Il Prof. Caruso ha accompagnato Mantano nella visita al Forte e al Museo, rendendosi gentilmente disponibile durante la chiusura estiva del mese di Agosto.

Mantano, inoltre, ha potuto beneficiare della  disponibilità del bravissimo ed espertissimo Corrado Loiacono, ex artificiere, chiamato spesso a disinnescare bombe e mine, non solo in Sicilia e nella vicina Calabria, ma anche in altre regioni, come Piemonte, Valle d’Aosta e Veneto.

La Batteria di costa Monte Gallo, in seguito chiamata Forte Cavalli, dal nome dall’omonimo generale, si trova sul Monte Gallo, a 330 metri di altezza s.l.m. Il Forte fu costruito fra il 1889 e il 1890.

Dallo spiazzo antistante le mura di cinta, dopo aver attraversato il ponte levatoio e il cancello d’ingresso, si accede alla Piazza d’Armi.

Lo sguardo del visitatore è subito attratto da un grossissimo cannone, posto proprio di fronte all’ingresso.

E’ il più grande cannone italiano della Seconda Guerra Mondiale con il suo peso di 16 tonnellate e la sua lunghezza di 10 metri. Ogni sua parte è stata fabbricata nelle industrie italiane, secondo le indicazioni di Mussolini, come spiega il Prof. Caruso. Esso è stato regalato alla città di Messina dal Ministero della Difesa ed è stato dichiarato Monumento ai caduti di tutte le guerre.

A fianco del cannone, su una targa affissa al muro, si può leggere un’epigrafe che invita i giovani ad amare e custodire la pace.

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Forte Cavalli – ha continuato a spiegare il Prof. Caruso – come gli altri Forti, è invisibile dal mare per motivi strategici, ma per gli stessi motivi si è fatto in modo che gli stessi Forti fossero visibili tra di loro tre a tre. Così, infatti, avrebbero potuto comunicare ugualmente, in caso di interruzioni telefoniche e telegrafiche. Fra tutti vi era poi una fitta rete stradale con baraccamenti, polveriere e depositi sparsi sul territorio.

Il punto di riferimento per tutti i Forti era il Forte di Antennamare (noto ai Messinesi come Dinnamare), sul  monte omonimo, alto circa 1130 metri: faceva anche da ponte radio.

Bellissimo lo spettacolo che si può godere da quel Forte:

Per la costruzione di Forte Cavalli vennero utilizzate anche le pietre di risulta dall’appiattimento della collina.

Le cronache del tempo – ci informa la guida – dicevano che la collina cominciava piano piano ad appiattirsi: segno che la batteria stava crescendo. “La vetta è stata sbancata con le mine; poi con pala, carriole e piccone, il materiale è stato portato via e selezionato, per essere riutilizzato nella costruzione dei vari livelli del Forte, fino alle piazzole che stanno in alto”. Per le rifiniture si usavano mattoni e pietra lavica.

forte-cavalli-postazione-cannoni

La canalizzazione dell’acqua – tuttora funzionante – portava l’acqua piovana ad una cisterna di 150 – 200 mila litri, oggi ripristinata, garantendo l’approvvigionamento idrico.

Inoltre, per evitare smottamenti e frane, vi erano canali di scolo, efficienti ancora oggi, e tutto un sistema di costruzione di piani con opere di contenimento, realizzato con gradoni in pietra lavica, su cui veniva posta terra e, quindi, piantati alberi. L’eventuale frana veniva ostacolata da questi, per così dire, denti di sega.

I Forti come in tutta Europa, furono costruiti attorno alla città e furono chiamati campi trincerati; cioè, anelli di forti intorno al nucleo abitato. Un’analoga  cinta di forti fu costruita sulla costa calabra, creando una fitta rete di osservazione, attraverso la quale era praticamente impossibile che si potesse attraversare lo Stretto senza permesso.

Vicino all’ingresso del Museo che si apre su Piazza d’Armi,  si possono vedere due ancore: una delle due, dono della Marina Militare Italiana al Forte, durante il secondo conflitto mondiale reggeva una rete che serviva ad impedire l’ingresso dei sommergibili nemici nel porto.

L’altra ancora è, invece, l’ancora di un dragamine.

forte-cavalli-ancora

Dopo Piazza d’Armi, la visita prosegue dentro il Museo.

 

Nel corridoio d’ingresso vi è una targa dedicata a Giacomo Matteotti. Egli, contrario alla partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra Mondiale, a causa dei suoi discorsi non interventisti fu trasferito a Messina, dove militò a Forte Cavalli fino alla fine del conflitto. Restano alcune lettere che da lì egli spedì alla moglie.

museo-cavalli-matteotti

Si percorre, poi, un corridoio perimetrale che, isolando gli ambienti interni, permetteva di mantenere asciutte le polveri conservate in alcune stanze lontane dalla montagna e dal terrapieno. Il ricircolo dell’aria, che vi era stato creato e  garantito tutt’oggi, consentiva di evitare l’umidità, mentre linee spezzate, ricavate sulle pareti, avrebbero potuto interrompere l’onda d’urto di eventuali esplosioni, dal momento che tutte le stanze erano stracolme di munizioni.

 

Da una sala all’altra, attraverso immagini, documenti e reperti, si snodano davanti al visitatore le tappe della storia, della costruzione dei Forti e della difesa dello Stretto, dall’Unità d’Italia alla Seconda Guerra Mondiale.

 

Nella Caponiera, per esempio, si trova la postazione di una mitragliatrice: serviva per la difesa del fossato e del ponte levatoio.

Oggi, su una grande pianta dello Stretto di Messina, si può “leggere” l’ubicazione delle fortificazioni costiere, dei forti di montagna e delle fotoelettriche che servivano per illuminare lo Stretto di notte.

Data la sorveglianza dello Stretto, molto difficilmente, come abbiamo detto, vi poteva passare una nave non autorizzata. Diverso fu però il caso dei sommergibili, imbarcazioni armate anche di cannoni oltre che di siluri, usate per la prima volta durante la Prima Guerra Mondiale. Tali imbarcazioni non erano ancora tecnologicamente evolute, né utilizzate in guerra all’epoca della costruzione dei Forti; perciò questi non vennero attrezzati per difendersi da tali pericoli. Così, durante la Prima Guerra Mondiale i sommergibili tedeschi, andando sott’acqua, riuscivano ad entrare nello Stretto e a colpire le navi passeggeri e le navi commerciali che vi circolavano. Dimostrazione che la costruzione di difese militari pensate per adeguarsi alle nuove armi, spesso sono già superate dal progresso, prima ancora di essere portate a compimento.

A Messina – cosa poco risaputa – nel 1915 fu dichiarato lo Stato di Guerra con tutti i provvedimenti conseguenti, documentati anche dai Manifesti Militari, inediti, in visione al Museo.

 

Molte sono le tavole esposte nei vari ambienti; fra le altre una rappresenta il Generale Longo, presidente della Commissione incaricata di studiare i siti idonei alla costruzione delle fortezze calabresi e messinesi; un’altra raffigura “i carrumatti”: i carri, cioè, su cui venivano trasportati materiali e armi dalla città alla nuova costruzione.

Materiale per la costruzione, artiglieria e tutto quanto potesse servire, veniva trasportato appunto dalla città al Forte sui cosiddetti “carrumatti”,  carri stretti e lunghi (5 metri per 1), simili ai tir, trainati da buoi – per portare un cannone a Forte Cavalli, ci volevano 20 buoi e 3 giorni di viaggio, partendo dalla stazione ferroviaria.

“Messina fu invasa dal traffico pesante, come oggi dai tir” – osserva sorridendo il Prof. Caruso – “e a quel tempo le Gazzette si lamentavano che la strada, appena aggiustata, venisse nuovamente rovinata, mentre i cittadini continuavano a pagare le tasse …” .

Lungo la dorsale dei Peloritani si possono vedere numerosi caseggiati: servivano come punto di appoggio per spostare le truppe in caso di attacco lungo una strada di 85 chilometri che portava da Messina fino ad Enna, senza passare dalla costa. Si evitavano in questo modo eventuali bombardamenti navali. E’ una via di collegamento lunghissima e ancora visibile sui Peloritani con strade incredibili, ripercorse e georeferenziate dallo stesso Prof. Caruso, il quale, durante la ricerca dei percorsi militari, ha rinvenuto, anche pietre miliari con la firma del Primo Reggimento Genio 1901, i “buttischi”, cioè  i sistemi che consentivano di canalizzare l’acqua prima che arrivasse sul piano stradale; i pozzetti che servivano per raccogliere i detriti, impedendo così un’eventuale frana e le fonti d’acqua usate per l’approvvigionamento di soldati, muli e buoi.

Ogni Forte era praticamente protetto da due servitù: una prima zona di servitù militare e una seconda zona, più esterna.

In quella più esterna  potevano accedere i contadini, per raccogliere legna, coltivare, ecc.; l’altra, più ristretta, era riservata al Forte. Le demarcazioni delle suddette servitù erano segnate da pietre miliari con delle incisioni ben chiare:

130 metri – significava, per esempio, che si distava 130 metri dal Forte; quelle pietre potevano essere chilometriche, ettometriche, ecc. Su alcune si legge ancora “seconda zona militare”; “zona di servitù”, DM –  Demanio Militare –  o TM – Territorio Militare.

Naturalmente il Museo ha dedicato una sala al Generale piemontese Giovanni Cavalli (1808 – 1879), inventore della rigatura dei cannoni, con la quale furono migliorate le artiglierie europee. In essa si trovano mappe e reperti che aiutano il visitatore a capire meglio l’innovazione da lui apportata e il suo impiego.

  

Significativa è la targa in bronzo, ottenuta dalla fusione dei cannoni austriaci alla fine della guerra e donata dal Comando della Brigata Aosta il 13 Maggio del 2007. Su di essa è riportato il Bollettino della Vittoria, firmato da Armando Diaz, Comandante in capo dell’Esercito Italiano.

  

Dopo aver parlato simpaticamente dei colombi viaggiatori, messaggeri durante la Prima Guerra Mondiale, delle colombaie mobili, dei vari telegrafi, telefoni e megafoni e del contemporaneo spionaggio per carpire i segreti delle fortificazioni .e delle postazioni delle artiglierie, la guida ha lasciato la parola a Corrado Loiacono.

Il suo intervento è stato mirato più che altro alla Seconda Guerra Mondiale: egli ha descritto bombe, mine e siluri, ha raccontato spesso dove e come sono stati ritrovati e anche le conseguenze nefaste su chi, rinvenendoli per caso, non è stato in grado di riconoscerli o di comprenderne la pericolosità. Inoltre, ha spiegato con chiarezza e ricchezza di particolari sia il loro funzionamento, sia come venivano disinnescati. Le dimostrazioni e il racconto della storia e dell’uso degli ordigni lasciavano spesso spazio ad interessanti e piacevoli aneddoti  e ai ricordi delle sue esperienze di lavoro.

La visita al Forte Cavalli, interessante sia per l’aspetto storico – architettonico che per l’aspetto paesaggistico, ha  permesso fra l’altro di venire a conoscenza di particolari poco noti sulle vicende di Messina e dello Stretto nel corso della Prima Guerra Mondiale.

 

 

1

   I forti edificati nel tardo Ottocento sono:

– 9 antinave sulla costa calabra (Poggio Pignatelli, Matiniti sup, Matiniti inf, Arghillà, Catona, Sbarre, Telegrafo, Pentimele nord, Pentimele sud).

– 9 antinave sulla costa messinese (Cavalli, Schiaffino, Mangialupi, Petrazza, Ogliastri, S. Jachiddu, Crispi, Serra la Croce, Masotto).

– 4 fortini di montagna sui Peloritani per la difesa della Piana di Milazzo (Campone, Centri, Ferraro, Antennammare).

– 1 forte di segnalamento non armato (Spuria) ricostruito sull'antico forte inglese. 
Tot. 22+1=23

 

BIBLIOGRAFIA

 

 Basil H. Liddel Hart

 La Prima Guerra Mondiale

BUR storia

 Sergio Romano

 Crispi

Biografie Bompiani

 G. Sabatucci –V. Vidotto

 Storia contemporanea – L’Ottocento

Editori Laterza

 Alberto Preti–Fiorenza Tarozzi

 Percorsi di storia contemporanea

Zanichelli

 Amalia Ioli Gigante

 Le città nella storia d'Italia –  MESSINA

Editori Laterza

 M. Lo Curzio,V. Caruso

 La Fortificazione Permanente dello  Stretto di Messina. Storia conservazione e restauro di un patrimonio architettonico e ambientale

 EDAS, Messina, 2006

 Vincenzo Caruso

 Messina nella PRIMA GUERRA MONDIALE

Edizioni Dr. Antonino Sfameni Messina 2008

 IL DEMANIO

 MONTI PELORITANI

AZIENDA REGIONALE FORESTE DEMANIALI

 Opuscolo

 VIVILFORTE

 

 Opuscolo

 Guida al Museo storico di FORTE CAVALLI

 

 

 

RINGRAZIAMENTI

Si ringrazia sentitamente il Professore Vincenzo Caruso per la sua cordialità e per la sua disponibilità.

 

      © Antonina Orlando 07 Dicembre 2016      

 

 

L'AMBIENTE SOCIO – POLITICO – ECONOMICO IN CUI SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 2

 

SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 1

L'AMBIENTE SOCIO – POLITICO – ECONOMICO IN CUI SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE

    

PARTE PRIMA: considerazioni  generali

 

Le testimonianze

1

 

FRIULANO

"Qualchi dì daur flirta me fresse Margherie in tun lùc, la che né propriamenti scomensade le vere cuintre l’Austria – Ungérie, par laser il Fiuli Oriental e la Venezia Giulia – Istria.

Sin partis in marchine viars al Monte San Michel, che si ciste zeture corsiche di sora, il pais di Fogliano Redipuglia, in provencia di Gurize. DI lassù i è scomensade le nese, cum la prima bataie centre l’ Austria. Pon dopo son stadis atris ses bataies dilung la valade dall’usinz; ma il centric strategich l’è sempre stat il Monte San Michele, parcè al iese il punt più alte di ante le alture corsiche e di lassù si dominave dute le pianure setante.

Tragiicamente famosi su chest Monte son stalis li strinceis de Francis rifugius scavos ine roces o cavernis poturalis, mentaradis cui ramaz, indulà che is militars talians si protegeria dai bombolonies, oppur ce potsuvita prin di ieri mandais sul ponte, in prime linee, a combatti".

 
ITALIANO

"Qualche giorno fa sono stato con mia nipote Margherita in un luogo, dove veramente è iniziata la guerra contro l’ Austria – Ungheria per conquistare il Friuli Orientale, la Venezia Giulia e l’ Istria. Siamo partiti in macchina diretti al Monte San Michele, che si trova sulle alture carsiche sopra il paese di Fogliano Redipuglia, in provincia di Gorizia. Di lassù è iniziata la guerra, con la prima battaglia contro l’Austria. Dopo ci sono state altre sei battaglie lungo la vallata dell’ Isonzo; ma il centro strategico è sempre stato il Monte San Michele, perché era il punto più elevato di tutte le alture carsiche e anche perché di lassù si controllava tutta la pianura sottostante.

Tragicamente famose in questo monte sono state molte le trincee dette “delle Frasche”, rifugi scavati nella viva roccia o caverne naturali, dove i militari italiani si riparavano dal bombardamento o, anche, restavano in attesa di essere comandati a raggiungere le prime linee al fronte della guerra".

 


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"Anche tuo nonno un giorno partì per andare lontano lontano a combattere per la Patria" – raccontava la nonna – "Partì assieme ad altri soldati con la tradotta … un viaggio lunghissimo…

 

 
Dovevano combattere in  mezzo alle montagne, nelle trincee e in gallerie scavate nella roccia  .
 

 … stavano in mezzo al fango e alla sporcizia, c'erano insetti e avevano freddo, sonno e fame … spesso non riuscivano a parlare con gli altri soldati, perchè quasi tutti usavano il loro dialetto e i dialetti sono tutti diversi! … quanti ne morivano!!! … Ma lui non si spaventava … gli Italiani erano forti … dovevano difendere la Patria e cacciare i nemici … alla fine abbiamo vinto!!!"

" … Ogni tanto tornava a casa… : allora, prima di entrare, si fermava sul terrazzino. Si toglieva la mantella … sporca e piena di insetti!. La lasciava in un angolo e vi poneva accanto calze e scarponi … Da quell'angolo il suo sorriso stanco era il primo assaggio del forte abbraccio silenzioso con cui ci avrebbe stretto a sè.

Una volta, da quelle montagne mi portò un piccolo fiore con i petali bianchi e vellutati … cresce solo su quelle montagne … lassù … ; per questo si chiama Stella Alpina".

                Quella fu una guerra lunga e terribile, combattuta soprattutto fuori dall'Italia e, tappa dopo tappa, coinvolse anche genti non europee, a catena, come in un domino.

I giovani si staccavano dalla vita, uno dopo l'altro, come le foglie, una dopo l'altra, si staccano dagli alberi in autunno, per cadere a terra – disse nella poesia "Soldati"  Giuseppe Ungaretti, che pure era partito volontario:

 

"Si sta come

d'autunno

sugli alberi

le foglie"

 

Nasceva nei soldati il desiderio di ritrovare l'umanità sopraffatta e dimenticata fra le atrocità di scontri micidiali e di ordini irrazionali. Rispuntava sulle loro labbra la parola "Fratelli". Essa era come la nuova fogliolina che appare sul ramo secco dopo l'aridità e la durezza dell'inverno. Una fogliolina appena nata, una nuova vita fragile, delicata e insicura in un mondo dolorante e ostile:

 

"Di che reggimento siete

fratelli?

Parola tremante

nella notte

 

Foglia appena nata

 

Nell'aria spasimante

involontaria rivolta

dell'uomo presente alla sua

fragilità

 

Fratelli"

 

Molte di quelle giovani esistenze, vicine a morire, impararono ad amare la vita.

Ancora Ungaretti in  "Veglia" descrive la ribellione del suo spirito accanto alla triste realtà del compagno morto, il cui corpo scomposto, gonfio e violaceo è illuminato dalla luce della luna piena:

"Un'intera nottata

buttato vicino

a un compagno

massacrato

con la sua bocca

digrignata

volta al plenilunio

con la congestione

delle sue mani

penetrata

nel mio silenzio

ho scritto

lettere piene d'amore

 

Non sono mai stato

tanto

attaccato alla vita"

 

L'ambiente

Lingue, storie, speranze, idee, consapevolezze diverse … tutti a combattere la stessa guerra, con le stesse sofferenze … e con la stessa morte …

 

           Ma perchè quella guerra? Quella Grande Guerra?

 

Due colpi di pistola: quelli che uccisero l'erede al trono d'Austria, l'arciduca Francesco Ferdinando, e sua moglie Sofia …

Dieci milioni di morti: quelli causati da quei due colpi di pistola.

L'attentato degli indipendentisti serbi fu grave; i due colpi letali, esplosi da Gavrilo Princip il 28 Giugno del 1914 a Sarajevo, in Bosnia, costituirono un fatto gravissimo. Eppure, poteva quell'attentato, da solo, per quanto grave, causare l'ingresso in guerra di tanti Stati, l'accanimento di tante decisioni, la morte di così tanti milioni di giovani, le menomazioni fisiche e mentali di moltissimi dei sopravvissuti? Per non parlare delle conseguenze sociali, economiche e politiche che ne seguirono, specie in Europa?

Non fu certo un caso isolato quell'attentato! Anzi, si può inserire in una serie nutrita di attentati di matrice anarchica, che hanno caratterizzato quel periodo storico, uccidendo governanti e sovrani, come quello contro Umberto I, ucciso a Monza da Gaetano Bresci nel 1900.

Non era davvero sicuro essere capi di Stato in quel momento!

              Alla fine della guerra, nell'art. 231del Trattato di Versailles (1919), le potenze vincitrici accusano la Germania e l'Austria – Ungheria di aver causato la guerra.

ART. 231 (Clausola di colpevolezza):

 – I Governi Alleati e Associati dichiarano e la Germania riconosce, che la Germania e i suoi alleati sono responsabili, per esserne la causa, di tutte le perdite e di tutti i danni subiti dai Governi Alleati e Associati e dai loro cittadini in conseguenza della guerra che è stata loro imposta dall'aggressione della Germania e dei suoi alleati.

 

Questa l'accusa.

Però, considerando bene la seconda metà dell'Ottocento e il primo Novecento nelle loro trasformazioni storiche, politiche, sociali ed economiche e considerando con altrettanta attenzione la complessità delle scelte politiche ed economiche, le ideologie e i nodi critici delle relazioni internazionali di tutto quell'arco temporale e, soprattutto, dei due decenni a cavallo fra l'Ottocento e il Novecento, si potranno scorgere facilmente altri gravi motivi di tensione. Vi erano, infatti, realtà che rendevano sempre più precario l'equilibrio fra gli Stati e sempre più difficoltose le iniziative di distensione, come quella della Conferenza per la pace, svoltasi a L'Aia nel 1907. Anzi, a ben guardare, anche la Conferenza di Berlino, voluta da Bismarck nel 1884/85, aveva avuto come scopo ultimo quello di evitare che, nella corsa alle conquiste coloniali, gli Europei trovassero un'occasione per scatenare delle nuove guerre in Europa.

Il 1907, d'altronde, sancisce la divisione dell'Europa in due blocchi contrapposti, sempre più rigidi. Quella spaccatura, cioè, creatasi dopo la guerra Franco – Prussiana, quando i nazionalisti francesi coniarono la parola Révanche contro il nazionalismo tedesco e per la riconquista dell'Alsazia e della Lorena, passate in mano alla Prussia vincitrice.

Da quel momento da una parte ci sarà la Germania con i suoi alleati, dall'altra la Francia con i suoi alleati.

L'equilibrio multipolare deciso dal Congresso di Vienna non è più possibile. Del resto, già dalla fine della guerra Austro – Prussiana del 1866, l'Austria, sconfitta dalla Germania, aveva rivolto i suoi interessi verso i Balcani; vale a dire verso una zona di grande instabilità, per le tendenze indipendentiste all'interno di un Impero turco sempre più debole e in via di disgregazione.

Intanto, la reciproca paura e i reciproci sospetti spingevano i vari Paesi ad aumentare gli armamenti: la pace si andava trasformando in pace armata e i generali acquistavano crescente autonomia e potere decisionale.

Il casus belli, cioè l'attentato di Sarajevo, fece esplodere quelle tensioni, governate a stento dalla politica delle alleanze che aveva garantito la pace per molti decenni.

Quella stessa pace che nel primo Novecento aveva permesso nuovi studi e nuove scoperte, usufruendo contemporaneamente delle innovazioni tecnologiche e delle invenzioni, prodotte, sull'onda della Rivoluzione industriale, dalla seconda metà dell'Ottocento in avanti. Essa aveva regalato un periodo di benessere materiale e culturale sempre più diffuso, pur se distribuito in modo diseguale fra gli strati sociali.

Aumenta, infatti, il numero delle automobili in circolazione; mentre si producono autocarri, omnibus, tram, furgoni, carri per pompieri e si realizza l'antico sogno dell'uomo: volare.

Cresce il numero delle fabbriche di liquore e cioccolato, di concerie e calzaturifici, nascono i primi stabilimenti di maglieria e biancheria.

Si diffondono i Grandi Magazzini e la pubblicità per la vendita di massa.

Nelle case borghesi entrano acqua corrente, servizi igienici, termosifoni a carbone, gas.

Le Autorità competenti cominciano a pensare a scuole, biblioteche, musei, ospedali, ospizi, asili d'infanzia e edilizia popolare.

LIBERTY 5494Trionfa un nuovo stile architettonico: l' "Art Nouveau", che in Italia prende il nome di Liberty.

 

L'elettricità trova nuove applicazioni e viene trasmessa a distanza. Vengono inventati nuovi elettrodomestici, come frigorifero e lavatrice, e un numero sempre più elevato di persone utilizza il telefono e la radio (quest'ultima arriverà in l'Italia nel 1924). Inoltre, una serie di farmaci moderni è a disposizione dei malati, contribuendo a ridurne la mortalità.

Aumentano le occasioni di divertimento e quelle culturali:

Vienna e Parigi sono le capitali della vita mondana.

Nella prima, l'aristocrazia di tutta Europa si raduna alla corte dell'Imperatore Francesco Giuseppe per grandi feste che si svolgono al suono del valzer e della polka, e la vita intellettuale, non meno intensa che a Parigi, attira scrittori, pensatori, filosofi.

CAN CANParigi attrae anche per l'attività dei pittori e delle gallerie d'arte; famosi e molto frequentati sono inoltre ristoranti, come Maxim's, e locali notturni, come il Moulin Rouge.

Si accentua la passione per il melodramma grazie alle opere di Giacomo Puccini (Bohème, Tosca, Madama Butterfly, Tourandot) e grande successo riscuote l'operetta: Vienna ne è la capitale e viennesi sono i suoi maggiori musicisti.

I ricchi spendono fortune nei casinò, in Francia (in Italia il primo compare nel 1905, autorizzato da Giolitti a Sanremo); dall'Inghilterra arriva il bridge.

E' più facile spostarsi anche grazie alla ferrovia che può contare su una linea qORIENT EXPRESSuadruplicata rispetto a quella del 1870 e su un treno lussuosissimo, l'Orient Express che, passando per Vienna, unisce Instanbul a Parigi. Soprannominato "re dei treni" e "treno dei re" per la sontuosità dei suoi arredi e inaugurato nel 1883, era stato pensato e realizzato da un banchiere di origine belga, Georges Nagelmackers, ed era frequentato soprattutto da nobili orientali, spesso decaduti.

I ceti benestanti cominciano a praticare sport: nuoto d'estate, durante le vacanze al mare, per esempio, e sci d'inverno. Si afferma altresì il meno costoso football e nascono squadre come la Juventus (1897) e il Torino (1906).

I primi anni del Novecento rappresentano un momento storico molto importante anche in campo sociale e culturale, proseguendo sulla strada delineatasi soprattutto nel secolo precedente:

 – Nel 1903 le donne, guidate da E. Pankhurst, danno vita in Inghilterra alle loro prime manifestazioni, per ottenere il diritto di suffragio (da qui il nome di suffragette). La Gran Bretagna lo concederà loro nel 1918.

Esse possono ormai accedere agli studi superiori e al mondo del lavoro professionale.

I loro vestiti si sveltiscono: viene abbandonata la crinolina che lascia posto a gonne morbide, strette al fondo, per poter salire agevolmente sulle automobilli e per praticare lo sci senza problemi.

 – Gli operai cominciano a ricevere forme di assicurazione contro gli infortuni, di previdenza per la vecchiaia e, in qualche caso, sussidi per i disoccupati.

 – Si va prestando più attenzione alla sicurezza e all'igiene nelle fabbriche, all'età dei minori che lavorano, nonchè alle stesse ore lavorative che, però, mediamente non scendono mai sotto le dieci giornaliere.

Gli studi spaziano in tutti i campi; così, fra scienze, medicina e chimica

– nel 1903 Marie e Pierre Curie ricevono il premio Nobel per aver scoperto il radio

– e fa la sua comparsa una nuova FREUDdisciplina: la psicanalisi, fondata dal medico viennese Sigmund Freud.

 

In Italia già dalla fine dell'Ottocento ottengono sempre più spazio le forze progressiste, la quali, assieme alle nuove banche, facilitano l'afflusso del risparmio privato verso gli investimenti industriali.

Dal 1903 sulla scena politica si afferma la figura del piemontese Giolitti, che nel 1912 concede il suffragio universale maschile.

L'età giolittiana vede la nascita e lo sviluppo di nuove industrie, soprattutto nei settori più moderni: siderurgia, tessile, alimentare, chimico, meccanico. Esse si concentrano nel cosiddetto triangolo industriale compreso fra Torino, Milano, Genova.

TALMONEContinuano tuttavia a vivere anche industrie minori, come le dolciarie e le conserviere.

 

L'affermazione dei grandi complessi industriali, sostenuta dagli istituti bancari, è favorita dalla costruzione di bacini idrici e centrali idroelettriche.

Aumentano i salari, diminuiscono malattie e mortalità, si diffondono giornali e libri.

Anche la vita artistica è in fermento, e non solo nei teatri: a Torino nasce il cinema. La vera nascita della prima industria cinematografica subalpina può farsi risalire all'incontro fra Omegna e Arturo Ambrosio nel 1904, quando furono realizzati i primi due documentari:

Prima corsa automobilistica Susa-Moncenisio e Manovre degli alpini al Colle della Ranzola.

La frequentazione delle sale cinematografiche, tuttavia, generò perplessità riguardo alla morale, perciò Giolitti inviò una circolare ai prefetti perchè se ne occupassero. Anche papa Pio X si preoccupò e, nel 1909, proibì al clero di entrare nei cinematografi. La stampa non fu da meno: "Il Giornale d'Italia" e "Il Giornale di Sicilia", ad esempio, organizzarono una vera e propria campagna contro l'immoralità del cinematografo.

In mezzo ad un forte inurbamento e a trasformazioni residenziali e urbanistiche, i capitalisti e i politici liberali organizzano anche in Italia Esposizioni, come avviene in tutti gli Stati teconologicamente e economicamente avanzati dell'Occidente.

GUIDA ESPOSIZIONE

Da ricordare L'Esposizione Internazionale delle Industrie e del Lavoro che si apre a Torino il 29 Aprile 1911. Nel Cinquantenario dell'Unità d'Italia, si vuole dare un'idea del progresso raggiunto nell'industria e nel lavoro non tanto da questa o quella nazione isolatamente, ma da tutte le nazioni riunite.

Atteggiamenti mentali, espressioni culturali, problemi e obiettivi economici sono davvero molto articolati in questo primo scorcio del Novecento.

Nel campo del lavoro, l'industria bellica sta compiendo passi da gigante, applicando le tecnologie più avanzate nella costruzione di mezzi e armi, la cui tipologia sarà incrementata nel corso di una guerra devastante, di cui ancora pochi si rendono conto.

Gli Stati più potenti, per combatterla, avranno a disposizione tutti i ritrovati tecnologici dell'epoca: obici, mitragliatrici, cannoni a tiro rapido di 75 mm, lanciafiamme, proiettili dumdum, corazzate armate di cannoni di grosso calibro, sommergibili, incrociatori da battaglia e leggeri, gas, aerei e una marina sempre più organizzata e potente.

Sfruttando le recenti teorie della psicologia, anche la paura e il coraggio, diventeranno armi psicologiche da utilizzare in campo militare.

A tutto ciò si unisce la propaganda.

Persino gli atteggiamenti e i temi letterari e artistici risentono dell'entusiasmo per le più recenti conquiste della tecnica, fiduciosi che il nuovo secolo segni l'inizio di un'epoca di felicità e affermazioni militari.

Filippo Tommaso Marinetti nel primo "Manifesto del Futurismo", pubblicato su "Le Figaro", il 22 Febbraio 1909, esprime tutta la sua fiducia nel progresso tecnologico. Nel Manifesto viene esaltata non solo la velocità, il dinamismo, la macchina e l'industria, ma anche la guerra, "igiene del mondo".

I Futuristi con le loro idee e con le loro composizioni artistiche entreranno a far parte sia del mondo letterario (come Marinetti, Palazzeschi e Govoni) che di quello pittorico (come Boccioni, Carrà e Balla che firmeranno il Manifesto tecnico della Pittura Futurista, nel 1910).

Dal primo Manifesto del Futurismo

1. Noi vogliamo cantare l'amor del pericolo, l'abitudine all'energia e alla temerità.

2. Il coraggio, l'audacia, la ribellione, saranno elementi essenziali della nostra poesia.

……………………………………………………………

7. Non v'è più bellezza, se non nella lotta. Nessuna opera che non abbia un carattere aggressivo può essere un capolavoro. La poesia deve essere concepita come un violento assalto contro le forze ignote, per ridurle a prostrarsi davanti all'uomo.

…………………………………………………………….

9. Noi vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo – il militarismo, il patriottismo, il gesto distruttore dei libertari, le belle idee per cui si muore e il disprezzo della donna.

10. Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d'ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria.

…………………………………………………………..

 

In questi anni di pace, progresso e bellezza (Belle Epoque), l'Europa, tuttavia, si sta avvicinando alla guerra a grandi passi, ma non tutti ne sono coscienti.

 

    In Italia i Futuristi non sono i soli ad esaltare la guerra; vi sono, infatti, vari gruppi politici che per varie motivazioni, si dichiarano favorevoli ad un intervento dell'Italia a fianco dell'Intesa (Interventisti). Tra essi il partito nazionalista, i liberali di destra con a capo Antonio Salandra, i liberaldemocratici di Giovanni Amendola, i radicali, i repubblicani, i socialriformisti di Leonida Bissolati, i sindacalisti rivoluzionari, facenti capo a Alceste de Ambris e a Filippo Corridoni e pochi massimalisti socialisti, al seguito di Mussolini.

Un ruolo importante nel formare menti favorevoli alla guerra fu assunto da giornali, riviste, intellettuali e poeti, come D'Annunzio.

In questa realtà la voce dei neutralisti, seppur presente, diventa via via più debole.

Per altro, e non solo in Italia, dietro quella tranquillità e quel benessere, permanevano realtà problematiche di disoccupazione, di sfruttamento del lavoro minorile e femminile, di giornate lavorative ancora troppo lunghe e di una LIBRO EMIGRANTE fortissima emigrazione, soprattutto italiana, che raggiungerà l'acme nel 1913.

Tutte le situazioni di cui sopra, sommate alle tensioni politiche fra gli Stati più potenti, all'instabilità delle alleanze, a guerre come quella di Libia e quelle Balcaniche, sommate anche alle tensioni etniche diffuse nell'Impero austro – ungarico e all'Imperialismo più esasperato, formavano una miscela esplosiva, pronta ad incendiarsi, appena si fossero presentate realtà causali.

Le problematiche di cui sopra, probabilmente, senza una scintilla non si sarebbero incendiate; la scintilla (leggasi attentato di Sarajevo) senza quel contesto, probabilmente, non avrebbe causato un'esplosione così devastante.

Fu l'interrelazione fra le due realtà che produsse il primo grande sconvolgente conflitto mondiale.

 

Nei prossimi articoli Mantano cercherà di presentare a grandi linee alcuni dei fatti e dei fenomeni storici che hanno originato gli aspetti positivi e quelli problematici e destabilizzanti del primo quindicennio del Novecento.

 

                                                   © Antonina Orlando 12 Luglio 2016

 

L'AMBIENTE SOCIO – POLITICO – ECONOMICO IN CUI SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE

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TESTIMONIANZE E RICORDI

Nella ricorrenza del centenario della partecipazione dell'Italia alla Prima Guerra Mondiale, sarebbe cosa interessante e bella ricordare che anche molti Siciliani furono chiamati a difendere e ad allargare i confini del Regno d'Italia, nato da pochi decenni.

Molti partirono per il fronte convinti dell'ideale della Patria e spinti dal senso del dovere; altri senza la piena coscienza delle motivazioni di quel conflitto.

Tutti, destinati ad enormi sofferenze e spesso alla morte, andarono verso terre e climi che non conoscevano, agli ordini e in compagnia di uomini con cui, per lo più, non avevano ancora in comune nemmeno la lingua.

Non sempre e non da tutti il loro sacrificio viene riconosciuto. Per questo ho pensato di raccogliere le testimonianze di quanti ancora ricordano qualche racconto di nonni.

Chi volesse aderire a questa iniziativa o ricevere informazioni può scrivere su facebook (antonina.orlando.315@facebook.com ) o più sotto, nello spazio riservato ai commenti.

Spero, comunque, in una condivisione. GRAZIE.

© Antonina Orlando 06 Maggio 2015