SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 3

SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 3

L’ambiente socio – politico – economico in cui nasce la Prima Guerra Mondiale

PARTE TERZA:

L'ITALIA verso l'IMPERIALISMO – L’EMIGRAZIONE – La TUNISIA

 

L’Ottocento industrializzato e imperialista in sintesi

 

 – L’Ottocento fu il secolo del grande sviluppo industriale, della colonizzazione e dell’imperialismo

Mentre in Italia si susseguivano gli avvenimenti che avrebbero portato all’unificazione della penisola, le grandi potenze europee, ormai industrializzate, formalizzavano i possedimenti coloniali, già da molto tempo sotto il loro controllo economico, e occupavano numerosi altri territori con interventi militari sia in Africa che in Asia e nel Pacifico. Il dominio su tante colonie così ricche da poter fornire materie prime e così utili da poter essere mercati per le industrie della madrepatria nonché piazze per nuovi investimenti, accresceva il potere degli Stati imperialisti non solo economicamente, ma anche politicamente. Infatti, tale dominio conferiva loro il “prestigio” necessario per influire sulle scelte politiche ed economiche internazionali.

Gli Europei, inoltre, strumentalizzando le teorie di Darwin, si considerarono all’apice dell’evoluzione sociale e culturale e ritennero gli altri popoli arretrati e primitivi: esseri da civilizzare e da mettere in mostra, al pari di animali esotici, in zoo umani in occasione delle esposizioni europee.

  – e anche il secolo delle comunicazioni e dell’accelerazione degli spostamenti:

  1. Fu migliorato, per esempio, il telegrafo, con cui nel 1844 l’americano S. Morse, riuscì a collegare Baltimora e Washington, e che dal 1896 G. Marconi fece funzionare senza fili; fu inventato il telefono; furono mandate in onda le prime trasmissioni via radio, dopo i primi segnali inviati da Marconi oltre Atlantico nel 1901.
  2.  
  • Nel 1825 entrò in funzione la prima linea ferroviaria, fra Stockton e Darlington (Inghilterra); nel 1826 – 30 Stephenson costruì la ferrovia Liverpool – Manchester; nel 1839 nacque la prima ferrovia italiana, la Napoli – Portici; nel 1902 la Transiberiana fu in grado di unire l’Europa con il porto di Vladivostok, sul Mar del Giappone, mentre intanto fra il 1870 e il 1910 veniva quadruplicata l’estensione della rete ferroviaria mondiale.
  • Contemporaneamente si aprivano nuove rotte di navigazione e facevano la loro comparsa i battelli a vapore, a cominciare dalla nave statunitense Sirius e dalla britannica Great Western che nel 1838 attraversarono l’Atlantico senza vele e con la sola forza del motore a vapore. Anche in Italia, sulle soglie degli anni ’40, apparvero le prime società di navigazione; fra esse: la “Società dei battelli a vapore siciliani”, fondata da un gruppo di capitalisti, di cui facevano parte Beniamino Ingham e Vincenzo Florio che successivamente fonderà per conto proprio l’impresa di navigazione “I. e V. Florio”

Il secolo XIX fu caratterizzato ancora dal commercio, dal liberalismo, dalla nascita del movimento operaio e dalle relazioni fra Stati. Tutto ciò in un clima europeo complessivamente pacifico.

 

L’Italia, il contesto europeo e le emigrazioni

L’Italia rimaneva fra gli ultimi Stati nella corsa alle colonie. La spiegazione è semplice, dato che fino al 1861 (1870, se consideriamo il suo ingresso nelle terre dell’ex Stato Pontificio)  essa era un insieme di Stati, divisi non solo dalla situazione politica, ma anche da quella finanziaria e infrastrutturale. Appena unificata, il suo bilancio era piuttosto vacillante a causa delle spese militari, sostenute durante le guerre risorgimentali, e di quelle necessarie per l’ammodernamento delle infrastrutture … e non aveva uno sviluppo industriale: le condizioni in cui versava la ponevano necessariamente fuori dalla gara per la conquista di colonie. Tuttavia, a partire dagli anni ’70 le industrie iniziarono un cammino di crescita, sviluppatosi poi, significativamente, dagli anni ’80 in avanti, in particolare dalla fine della depressione del 1873 – 1896.

A questo punto, anche gli Italiani cominciarono ad avvertire i problemi causati dalle conseguenze negative dell’industrializzazione.

La produzione di beni quantitativamente superiori alla richiesta dei mercati e di conseguenza invenduti da una parte e il costo di merci e derrate alimentari provenienti dall’estero, soprattutto dall’America, divenuto concorrenziale grazie alla navigazione a vapore, ai miglioramenti della navigazione a vela e alla disponibilità di navi enormi – i bastimenti – che attraversavano l’Oceano rapidamente, permisero prezzi contenuti che misero in crisi l’agricoltura.

Venne a mancare il lavoro ed ebbe inizio la grande emigrazione dalle campagne verso le fabbriche della città oppure verso l’estero.

La grande emigrazione italiana verso l’America ebbe inizio nell’Italia settentrionale, a seguito della grave crisi degli anni ’70. Essa interessò prevalentemente il Veneto, il Friuli Venezia Giulia e il Piemonte.

Da lì, dopo il 1880, si estese massicciamente nell’Italia meridionale e insulare, da dove, nei decenni precedenti, molti emigranti erano partiti verso mete più facilmente raggiungibili, come il Nord Africa.

Si trattava di un’emigrazione definitiva, nel contesto di una gigantesca espansione degli Europei in Africa, Asia, Pacifico.  

A facilitare l’emigrazione verso l’America, furono le nuove tecnologie che permisero la costruzione di navi a scafo metallico, sempre più capienti, e la diminuzione di costi e di pericoli.

 

La situazione in Sicilia

 

In Sicilia le emigrazioni assunsero proporzioni sempre più impressionanti con lo scorrere degli anni. Fra le molteplici cause, come la sovrappopolazione, dovuta al miglioramento delle condizioni socio – economiche del Paese, e la diffusione del capitale industriale nelle Americhe e nelle colonie europee dell’Asia e dell’Africa, dove si crearono moltissimi posti di lavoro non qualificati, un ruolo significativo va attribuito anche alla mancata riforma agraria. La riforma agraria, se attuata, avrebbe potuto dare origine alla stipula di nuovi contratti agricoli, in assenza dei quali i contadini si trovavano in balia dei latifondisti, e avrebbe potuto portare ad una importante riduzione dei dazi doganali, i quali, favorendo le colture più povere, come il grano, danneggiavano quelle specializzate, quali vino, olio, frutta e ortaggi. A tutto ciò si aggiungeva un diffuso analfabetismo che pregiudicava la partecipazione di larghissima parte della popolazione alle decisioni nazionali lasciate così ai ceti istruiti. La maggior parte della popolazione, infatti, era analfabeta e la riforma elettorale, approvata dal Parlamento nel 1882, non poteva allargare di molto la sua partecipazione alla vita politica, dal momento che, pur innalzando il numero degli aventi diritto al voto, continuava ad escluderne molti fra operai e contadini. La legge del 1882, infatti, considerava elettori tutti gli uomini, a partire dai 21 anni d’età. Essi dovevano essere in grado di poter pagare almeno un’imposta di 19 lire o dovevano aver frequentato i primi due anni della scuola elementare. Nella vita reale, dunque, tale legge produsse pochissimi cambiamenti e molto spesso non ne fu neppure conosciuta l’esistenza, pur segnando un’evoluzione rispetto a quella dello Stato piemontese estesa a tutto il Regno d’Italia: in base ad essa era necessario essere in possesso di cittadinanza italiana, godere dei diritti civili e politici, avere compiuto 25 anni di età, saper leggere e scrivere e pagare un’imposta diretta di almeno 40 lire.

 

 

 L’arrivo in Sicilia di Garibaldi e i suoi primi provvedimenti

 

 L’arrivo di Garibaldi in Sicilia risvegliò l’antica speranza della divisione della terra. Egli,  infatti, in qualità di dittatore dell’isola, il 2 giugno 1860, su suggerimento di Crispi, emanò un decreto, firmato dallo stesso Crispi, per cui ad ogni combattente per la patria – cioè a chi avesse combattuto con i garibaldini – sarebbe stata assegnata una quota di terra dei demani comunali, in attesa di ripartizione:

Decreto dittatoriale 2 giugno 1860

 

GIUSEPPE GARIBALDI

Comandante in Capo le forze nazionali in Sicilia

DECRETA
art. 1 – Sopra le terre dei demani comunali da dividersi, giusta la legge, fra i cittadini del proprio comune, avrà una quota certa senza sorteggio chiunque si sarà battuto per la patria. In caso di morte del milite, questo diritto apparterrà al suo erede.

art. 2 – La quota di cui è parola all'articolo precedente sarà uguale a quella che sarà stabilita per tutti i capi di famiglia poveri non possidenti e le cui quote saranno sorteggiate. Tuttavia se le terre di un comune siano tanto estese da sorpassare il bisogno della popolazione, i militi o i loro eredi otterranno una quota doppia a quella degli altri condividenti.

art. 3 Qualora i comuni non abbiano demanio proprio vi sarà supplito con le terre appartenenti al demanio dello Stato o della Corona.

art. 4 – Il Segretario di Stato sarà incaricato della esecuzione del presente decreto.

 

Il decreto non teneva conto, però, di un diritto preesistente: era stato stabilito, infatti, che in ciascun comune i beni demaniali avrebbero dovuto essere divisi e assegnati, con sorteggio, fra i cittadini che ne avessero avuto diritto.

Era una legge che si rifaceva alla Costituzione concessa alla Sicilia nel 1812 dal re Ferdinando – III di Sicilia, IV di Napoli e I delle Due Sicilie, – su richiesta degli Inglesi presenti nell’isola. Essa riguardava anche l’abolizione del feudalesimo, abolizione accettata dagli stessi baroni.

Purtroppo, la divisione delle terre, pur sancita dalla Costituzione, non fu mai messa in opera e generò aspri conflitti per la definizione dei confini, per l’esistenza di diritti consuetudinari, non sempre riconosciuti o dimostrabili, ecc. Così nel 1841 Ferdinando II stabilì nuove procedure e affidò il compito di dividere e assegnare i terreni alle amministrazioni locali.

D’altro canto, Garibaldi e i suoi collaboratori, pur mostrando di voler risolvere i problemi dei contadini, non avevano intenzione né di sconvolgere i rapporti di proprietà, né di anteporre i problemi sociali alla lotta contro i Borboni. E così le terre baronali non furono toccate.

Molti democratici, fra cui Crispi, comprendevano le difficili condizioni dei contadini, ma sebbene avessero bisogno anche del loro aiuto, temevano maggiormente il venir meno dell’appoggio dei grandi proprietari, ai quali dovevano dimostrare di saper affrontare le agitazioni in atto e di saper proteggere le loro proprietà.

Il compito di Garibaldi dittatore fu, dunque, quello di ristabilire l’ordine anche con la forza; perciò furono emanati decreti specifici, riguardanti l’istituzione di tribunali militari sia per i reati militari che per quelli civili e fu introdotta la pena di morte non solo per l’omicidio, ma anche per il furto, per il saccheggio e per alcuni crimini contro l’ordine pubblico.

Al provvedimento di Garibaldi seguirono, dunque, manifestazioni violente in diversi punti della Sicilia. I risvolti più drammatici e sanguinosi si registrarono nei paesi etnei di Biancavilla e di Bronte. Qui, migliaia di contadini, ormai esasperati dalla mancata divisione delle terre, il primo agosto del 1860 invasero le strade e, mentre a nessuno veniva più permesso di uscire dalla città, assaltarono municipi, case, proprietà private e anche i beni dell’amministrazione della Ducea di Nelson.

 

La Ducea risaliva al 1799, quando re Ferdinando, a causa dell’ingresso delle truppe francesi a Napoli e della successiva proclamazione della Repubblica Partenopea, fuggì a Palermo a bordo della nave ammiraglia Vanguard di Nelson. Il re per ricompensare l’ammiraglio, lo nominò duca di un’estesa tenuta a Bronte. Né Nelson, né i suoi discendenti Bridport, che la ereditarono, videro mai quel feudo.

Gli Inglesi, di fronte della ribellione del primo agosto 1860, chiesero a Garibaldi di ripristinare l’ordine. Garibaldi, in partenza per Napoli e Roma, incaricò Nino Bixio.

Quest’ultimo ebbe il compito di intervenire per risolvere la situazione a Bronte e per riportarvi la tranquillità anche more bellico. Bixio che, oltre ad essere un generale come Garibaldi, era anche presidente del Tribunale di guerra, si comportò come tale, occupando militarmente il paese, procedendo all’arresto dei presunti colpevoli, processandoli senza possibilità di difesa e condannandoli a morte mediante fucilazione. Il fatto fu considerato rappresaglia e suscitò indignazione, causando gravi conseguenze per lo stesso Garibaldi.

 

Di seguito alcuni brani da “La libertà” in cui Verga fa riferimento a quanto accaduto in quei giorni:

“…

Il giorno dopo si udì che veniva a far giustizia il generale, quello che faceva tremare la gente. Si vedevano le camicie rosse dei suoi soldati salire lentamente per il burrone, verso il paesetto; sarebbe bastato rotolare dall'alto delle pietre per schiacciarli tutti. Ma nessuno si mosse…

Le donne strillavano e si strappavano i capelli. Ormai gli uomini, neri e colle barbe lunghe, stavano sul monte, colle mani fra le cosce, a vedere arrivare quei giovanetti stanchi, curvi sotto il fucile arrugginito, e quel generale piccino sopra il suo gran cavallo nero, innanzi a tutti, solo.

… Questo era l'uomo. E subito ordinò che glie ne fucilassero cinque o sei, Pippo, il nano, Pizzanello, i primi che capitarono. Il taglialegna, mentre lo facevano inginocchiare addosso al muro del cimitero, piangeva come un ragazzo, per certe parole che gli aveva dette sua madre, e pel grido che essa aveva cacciato quando glie lo strapparono dalle braccia. Da lontano, nelle viuzze più remote del paesetto, dietro gli usci, si udivano quelle schioppettate in fila come i mortaletti della festa.

Dopo arrivarono i giudici per davvero, dei galantuomini cogli occhiali, arrampicati sulle mule, disfatti dal viaggio, che si lagnavano ancora dello strapazzo mentre interrogavano gli accusati nel refettorio del convento, seduti di fianco sulla scranna, e dicendo – ahi! – ogni volta che mutavano lato.

Il processo durò tre anni, nientemeno! tre anni di prigione e senza vedere il sole. Sicché quegli accusati parevano tanti morti della sepoltura, ogni volta che li conducevano ammanettati al tribunale.

Di faccia erano seduti in fila dodici galantuomini, stanchi, annoiati, che sbadigliavano, si grattavano la barba, o ciangottavano fra di loro. Certo si dicevano che l'avevano scappata bella a non essere stati dei galantuomini di quel paesetto lassù, quando avevano fatto la libertà. E quei poveretti cercavano di leggere nelle loro facce. Poi se ne andarono a confabulare fra di loro, e gli imputati aspettavano pallidi, e cogli occhi fissi su quell'uscio chiuso. Come rientrarono, il loro capo, quello che parlava colla mano sulla pancia, era quasi pallido al pari degli accusati, e disse: – Sul mio onore e sulla mia coscienza!…

Il carbonaio, mentre tornavano a mettergli le manette, balbettava: – Dove mi conducete? – In galera? – O perché? Non mi è toccato neppure un palmo di terra! Se avevano detto che c'era la libertà!…”

 

La riforma agraria in realtà non interessava né ai poteri politici né ai grandi latifondisti – espressione politica della Sicilia a Roma – “la rappresentanza parlamentare siciliana era quasi totalmente costituita da grandi proprietari terrieri … e da grandi professionisti.” 1

Essi, ministerialisti, facilmente erano in grado di evitare che la riforma venisse attuata, grazie anche ai voti che in cambio assicuravano ai governi centrali.

 

“… i soli atti ad avere e usare influenza ed autorità di qualunque genere erano i membri della scarsissima classe abbiente insieme con quei pochi che alla mancanza di ricchezza supplivano colla svegliatezza di mente e coll’astuzia, e fra loro, quelli che s’erano acquistata e sapevano conservarsi la preponderanza. … [A siffatta] classe dirigente … lo Stato italiano affidò … l’amministrazione del patrimonio pubblico … si rimise nelle mani loro per conoscere i lamenti, i bisogni, i desiderii dell’intera popolazione dell’Isola. … nella pratica si sottopose alla loro autorità; perché deve fare i conti con i desiderii e le domande dei deputati, ai quali dal canto loro conviene appoggiarsi sulla classe influente dell’Isola per non perdere il collegio” 2

 

A ciò si aggiungevano fatti contingenti e scelte finanziarie: da una parte, la fillòssera che aveva infestato l’Europa, causò la distruzione di interi vigneti, sostituiti da coltivazioni di minor pregio, come il frumento – scelta incoraggiata anche dalle tasse doganali imposte al grano proveniente dall’estero; dall’altra parte, una tassazione molto pesante rendeva antieconomica la distillazione dei vini. La gravità del danno conseguente a tale tassazione si può valutare, se si pensa che vi erano impiegati ingenti capitali, macchinari spesso all’avanguardia, manodopera specializzata, imprenditori e artigiani di grande esperienza. Inoltre, piccole e medie industrie erano sparse in quasi tutta la regione e andavano crescendo di numero in relazione all’estensione dei vigneti. Con la distillazione si riuscivano a recuperare non solo le eccedenze di mercato, ma soprattutto i prodotti scadenti.

Come quello di cui si è appena detto, altri settori produttivi risentirono di provvedimenti sfavorevoli.

  Lo stesso Ignazio Florio, erede di un’industria vinicola di fama internazionale risalente agli anni trenta dell’Ottocento, divenuto senatore del regno, “invece di promuovere il sorgere di un partito industriale isolano, …, si schierò a sostegno del partito agrario e mise il suo prestigio e la sua borsa al servizio dell’ambizioso progetto di raccogliere le frazioni sparse della classe dominante isolana attorno alla bandiera degli interessi agrari siciliani …” 3 

Conseguenze negative per l’isola ebbe anche il Congresso di Berlino del 1878, convocato per risolvere la crisi balcanica, nata perché l’Impero ottomano si era indebolito a causa della guerra contro la Russia. Purtroppo, infatti, dopo il Congresso le relazioni con la Francia peggiorarono, subendo subito dopo un ulteriore colpo, quando la Francia ottenne il protettorato sulla Tunisia, a cui aspirava l’Italia sia per la vicinanza geografica che per la presenza di una forte comunità di Italiani, soprattutto siciliani. Durante i lavori del Congresso, da una parte il ministro degli Esteri tedesco Bülow invitò Corti, ministro degli Esteri italiano, a pensare all’occupazione di Tunisi, dall’altra, Bismarck lasciò la Francia libera di agire in Tunisia con lo scopo sia di distoglierla da mire di conquista in Europa, sia di creare problemi fra lei e l’Italia. Si aprì allora una guerra commerciale che pregiudicò lo smercio dei prodotti agrari e minerari, provenienti dalla Sicilia.

La cosa fu molto grave per l’isola, visto che Francia e Inghilterra ne costituivano i mercati preferenziali per quanto riguardava le produzioni agricole pregiate, lo zolfo, il sale.

La guerra commerciale si aggravò poi, quando, nel 1887, si costituì il blocco agrario meridionale, per un verso contrapposto al blocco industriale settentrionale, ma per altro verso suo alleato: furono allora varate e applicate nuove tariffe doganali che aggravarono il commercio con la Francia e causarono gravissime conseguenze.

A ciò si aggiunse la rivoluzione industriale del nord che causò un ulteriore motivo per l’emigrazione transoceanica del sud, dato lo squilibrio economico creatosi fra settentrione e meridione.

 

L’emigrazione

 

Gli emigranti appartenevano a quasi tutte le regioni italiane, ma provenivano in massima parte dal mezzogiorno della penisola. Essi si aggiunsero a quelli già partiti da altri stati europei verso l’America, durante le ricorrenti crisi economiche degli anni precedenti; primi fra essi i contadini provenienti dall’Inghilterra, dall’Irlanda e dall’Europa centrale, anch’essi disoccupati a causa delle crisi agrarie.

 

“ … verso la fine degli anni 1830 cominciarono ad arrivare numerosi nella Terra Promessa gli emigranti – in maggior parte Tedeschi, Irlandesi e Olandesi.

In Europa a quel tempo le condizioni erano cattive, e i nuovi industriali americani, che consideravano la manodopera indigena troppo indipendente, riguardo ai salari e all’orario di lavoro, inviarono agenti in Irlanda e sul continente per attrarre là negli Stati Uniti la povera gente con racconti fantastici di montagne d’oro e di libertà e di opportunità senza limiti. … .” 4 

 

Per quanto riguarda le ondate migratorie siciliane degli anni ’80 – ’90, vanno tenute in conto certamente le cause economiche, legate alla crisi dell’agricoltura, alla crisi del commercio zolfifero per la concorrenza americana, all’impossibilità di uno sviluppo industriale, alla decadenza anzi di attività industriali fiorenti come quelle dei Florio; vi assumono, tuttavia, grandissima rilevanza anche gli aspetti culturali.

“Emigra chi è più colto e istruito, più audace e ardito, più determinato nei propositi e fiducioso nel domani. Perciò, la scelta cade su quelle parti del mondo – America del Sud e  America del Nord, ove più accelerato si presenta lo sviluppo e più ampia risulta la fascia delle opzioni personali.” 5 

Nell’America del sud l’inserimento fu meno traumatico dal momento che lingua, religione e abitudini alimentari ricordavano quelle di casa; in quella settentrionale, al contrario, l’inserimento fu molto difficile e a volte non avvenne, dando come risultato la creazione di quartieri – isola dove i nuovi arrivati ricreavano il loro ambiente originario. Anche i luoghi di lavoro che li aspettavano nell’America del nord erano molte volte problematici. Gli Italiani giungevano a destinazione dopo un viaggio interminabile, estenuante, senza assistenza di alcun tipo. I transatlantici, ben curati e ben allestiti sulle prime, con il passare degli anni diventavano sempre più trasandati e pericolosi. Disagi e sofferenze patiti durante il percorso causavano necessità di assistenza e ricoveri una volta sbarcati. Di tale situazione l’America si lamentava a causa delle spese che doveva sostenere per le cure. Fu per questo motivo che spesso le compagnie venivano “multate”.

Quasi sempre erano i boss a trovare lavoro e un luogo dove abitare agli emigrati, specie se chi arrivava non aveva né parenti, né amici ad attenderli; il tutto a prezzo di sopraffazioni e pagamento di tangenti.

Anche i problemi sociali erano numerosi e gravi: scioperi, attentati, violenze e prepotenze erano all’ordine del giorno. Si lottava per una paga migliore e per la riduzione dell’orario di lavoro.

“… Alcuni sindacati … avevano deciso, nel 1884, di promuovere una grande campagna per le otto ore; il 1° maggio 1886 era stato scelto come giorno della manifestazione. …” 6 

Molti dei lavoratori che da tempo erano arrivati in America da vari stati europei, erano già sindacalizzati o in qualche modo organizzati, preparavano manifestazioni anche violente e attacchi dinamitardi; spesso, inoltre, bloccavano i treni che trasportavano merci e passeggeri e fermavano il lavoro nelle fabbriche. I migranti che arrivavano in ondate successive, come gli italiani, non ponevano problemi ed erano molto bisognosi; essi venivano inseriti presto nei luoghi di lavoro a condizioni estreme, in sostituzione o a preferenza della manodopera organizzata:

“… con gli immigranti che arrivavano a frotte, rozzi e refrattari ad ogni organizzazione, pronti ad assumere qualsiasi lavoro per qualsiasi paga, a lavorare dodici o quattordici ore al giorno, …” 7   

 

 – Le rimesse degli emigranti

 

L’emigrazione siciliana verso la lontana America, sia del nord che del sud, ebbe un risvolto positivo per l’economia generale italiana.

“Tra gli effetti considerati benefici dell’emigrazione all’estero vi è l’afflusso di denaro pregiato, frutto del risparmio che a prezzo di enormi sacrifici realizzano i lavoratori espatriati. … Si calcola che le rimesse degli emigranti siciliani si avvicinino e anzi tocchino i cento milioni annui. In un quindicennio, quindi, affluisce nell’isola una massa monetaria, in dollari, valutabile intorno al miliardo di lire. E’ un apporto di ricchezza che si aggiunge al monte dei redditi ottenuti nell’isola nei vari settori produttivi. Considerato che il prodotto lordo vendibile ricavato dall'industria zolfifera si aggira sui trentacinque milioni annui, è come fosse stata avviata una nuova industria due – tre volte più grande della mineraria.” 8 

 

 – Ma come venivano impiegati in patria quei capitali?

 

Le rimesse degli emigrati meridionali e siciliani, depositate nelle banche dei loro paesi d’origine e quasi mai investite opportunamente in loco, finanziando, per esempio, gli ammodernamenti dei possedimenti terrieri, in vista di un miglior rendimento,  erano destinate a sovvenzionare le industrie settentrionali, per l’acquisto di materie prime e di tecnologia nel mercato internazionale. Lo Stato, inoltre, utilizzava tali depositi per costituire il capitale necessario, con cui la Cassa depositi e prestiti finanziava la costruzione di infrastrutture nelle regioni del nord.

L’Italia d’altronde, inserita ormai in un contesto europeo di corsa agli armamenti, necessitava di un buon arsenale militare e di buone fortificazioni, per elevare il suo livello di sicurezza e per conquistare colonie; di conseguenza aumentò le spese militari e favorì l’industria pesante.

La Sicilia, anche a causa della sua posizione geografica, non ricevette nessun beneficio dall’accresciuta richiesta di lavoro industriale. Neppure il porto di Messina poté essere utilizzato per le esigenze militari dello Stato, a causa delle insufficienti garanzie di sicurezza, trovandosi sullo Stretto, via d’acqua internazionale, pur essendone stata programmata e realizzata la fortificazione sia sulla sua sponda siciliana che su  quella calabrese.

 – Vi è pure una migrazione interna:

“… Agli intellettuali le offerte sono più varie ed appetibili. Fuori dalla Sicilia, a Roma, nel Nord, vi è sufficiente spazio all’esercizio delle loro funzioni professionali o al soddisfacimento delle loro ambizioni. Preferiscono, dunque,  l’emigrazione interna, privilegiano la grande capitale, centro della politica, degli affari, degli impieghi statali, oppure optano per le regioni ove è in corso il primo consistente processo di trasformazione industriale del paese.” 9 

 

La vocazione coloniale dell’Italia: la Tunisia

 

Intanto fra gli Italiani si andava affermando la convinzione che l’Italia non fosse inferiore agli altri grandi Stati e si considerò importante che essa si conquistasse un posto nel consesso delle grandi potenze. Per guadagnare il “prestigio” necessario, fu intrapreso, allora, il cammino verso il colonialismo e l’Imperialismo, seppure “Imperialismo straccione”, come fu definito da Lenin nel 1916.

Fu in questo contesto che si maturò in un primo tempo la strategia di uno sbocco coloniale non militarista in Tunisia, a cui l’Italia aveva rivolto le sue attenzioni in modo particolare dopo il 1869, quando, in seguito all’apertura del canale di Suez, Tunisi con Biserta, fu considerata base navale strategica. D’altra parte in Tunisia si erano già stabiliti da parecchio tempo molti Italiani, soprattutto siciliani provenienti dalla Sicilia occidentale.

Consapevole del numero elevato degli Italiani ivi residenti, spinta dalla Reale Società geografica italiana che nel 1875 aveva organizzato missioni “scientifiche” a scopo politico anche in Tunisia, dai circoli espansionisti italiani che ne avevano fatto il loro obiettivo coloniale, e dal mondo della finanza, fu verso quella terra che l’Italia volse il suo interesse.

Prestissimo, però, dovette scontrarsi con la Francia e cedere di fronte a tale fortissimo concorrente.

In Tunisia si incontravano gli interessi economici e strategici sia dell’Italia che della Francia, la quale, per di più, la rivendicava in quanto confinante con l’Algeria in suo possesso ormai da molti anni. Le banche europee avevano fatto numerosi prestiti alla Tunisia che aveva avviato ambiziosi programmi di ammodernamento, ma le iniziative non avevano mai avuto fortuna sia per le poche risorse locali, sia per la sua amministrazione inadeguata e corrotta. La situazione causava il malcontento della popolazione, mentre contemporaneamente il debito con le banche europee saliva a livelli altissimi. La Francia pensò di doversi tutelare in previsione di una possibile bancarotta e decise di intervenire militarmente, incoraggiata, come abbiamo visto, anche dalle decisioni del Congresso di Berlino del ’78, dove le grandi potenze si schierarono in suo favore. Approfittando di un incidente avvenuto nella primavera del 1881 ai confini con l’Algeria, inviò un contingente militare a Tunisi e impose al bey un regime di protettorato.

L’attenzione dell’Italia si rivolse allora verso l’Africa orientale e infine alla Libia, mentre ogni preoccupazione verso gli Italiani emigrati in colonie non italiane lentamente svanì ed essi non entrarono nemmeno nelle storie coloniali.

 

L’emigrazione italiana dell’Ottocento in Tunisia

 

La presenza di cittadini provenienti dalla penisola italiana è attestata in Tunisia nel corso di quasi tutte le epoche storiche. Di rapporti, poi, instaurati nei secoli fra la marineria siciliana e quella magrebina, legati in particolare al commercio del corallo, si trova testimonianza anche nel libro di Alfonso Campisi Memorie e racconti del Mediterraneo – L’emigrazione siciliana in Tunisia tra il XIX e il XX secolo.

Tra i primi cittadini dell’Italia preunitaria che lasciarono la penisola alla volta della Tunisia, vi furono gruppi di Genovesi i quali, partiti intorno al XVI secolo soprattutto da Pegli, si fermarono sull’isola di Tabarca, di fronte a Tunisi. Qui coltivavano i coralli che vi si trovavano, per praticarne il commercio con la madrepatria, che li rivendeva poi a caro prezzo in Europa.

Esauritisi i banchi corallini e deterioratisi i rapporti con le popolazioni arabe, molti dei coloni genovesi, su invito di Carlo Emanuele III, nel 1738, si recarono in Sardegna e si stabilirono sull’isola di San Pietro, allora disabitata. Lì fondarono un nuovo comune, a cui, in onore del re, diedero il nome di Carloforte. Quanti rimasero in Tunisia, furono considerati schiavi.

Alla fine del XVI secolo anche alcuni ebrei, che dopo varie peregrinazioni si erano stabiliti a Livorno, instaurarono rapporti commerciali con il Nordafrica. Le loro attività crebbero tanto di importanza, che i livornesi in un primo tempo crearono filiali a Tunisi e successivamente, nel corso del XVII secolo, decisero di trasferirsi lì in modo stabile con le loro famiglie, continuando a dedicarsi al commercio e mantenendo contatti con gli ebrei di Livorno o Grana ( termine arabo per indicare i Livornesi di Livorno).

Nel corso dell’Ottocento emigrarono in Tunisia anche molti Grana. Accanto ai correligionari tunisini, da cui ormai si distinguevano per la loro cultura europea e soprattutto italiana,  continuarono a svolgere attività di commercianti e banchieri. La loro influenza sugli ebrei tunisini benestanti fu tanto forte che questi ultimi impararono a parlare e a scrivere in italiano correttamente.

Sempre nell’Ottocento,  a partire dagli anni della Restaurazione e in concomitanza con i movimenti che portarono all'unificazione dell'Italia, molti esuli politici cercarono riparo in Tunisia; fra essi, dal 1821 al 1824, i carbonari. Chi arrivava dall’Italia meridionale e dalla Sicilia, spesso lo faceva clandestinamente, così come clandestinamente ne ripartiva.

Dagli anni Venti dell’Ottocento aumentò anche l’arrivo dei lavoratori stagionali e questo permise mescolanza e confusione fra i due gruppi.

Falliti i moti del ’30, fu la volta di altri esuli dall’Italia settentrionale, centrale e meridionale; fra questi si distinsero personalità di rilievo, che contribuirono alla nascita e all’organizzazione di strutture scolastiche civili e militari. Lo stesso  Garibaldi, condannato a morte in contumacia, riparò in Tunisia.

Il flusso degli esuli dall’Italia continuò incessante fino all’Unità. Arrivarono soprattutto Siciliani, data la vicinanza geografica e le continue rivolte isolane duramente represse; quando, per esempio, la rivolta del ’48 sconvolse l’isola, essi cercarono protezione presso il console piemontese a Tunisi, non riconoscendo più l’autorità del console napoletano.

In conclusione, dal 1815 al 1861 circa nella Reggenza di Tunisi si rifugiarono molti attivisti politici, massoni e intellettuali, provenienti dal centro e dal settentrione dell’Italia; ma in Tunisia giunsero anche anarchici, democratici, repubblicani, mazziniani, carbonari, ex-napoleonici a seguito del fallimento dei moti rivoluzionari italiani.

 

Ormai la lingua italiana era fra quelle più conosciute e parlate in quel lembo d’Africa e molti esuli la insegnavano sia ai bambini italiani che a quelli tunisini.

Molti poterono riprendere le attività e le professioni che svolgevano in patria; altri, seguendo l’esempio dei livornesi, cominciarono a esportare e a importare prodotti tipici. Con il tempo richiamarono le famiglie e si formarono famiglie nuove, i cui sposi provenivano da regioni italiane geograficamente molto distanti fra loro.

Tutti continuarono a interessarsi ai problemi e agli avvenimenti della madrepatria: fu raccolto e inviato denaro anche per emergenze ambientali; vi furono attivisti politici, si formarono logge massoniche e nacque una sezione della Giovane Italia; furono raccolte armi e spedite in Sicilia per i Mille, assieme a denaro.

La prima ondata di emigranti siciliani, dunque, quella del ventennio pre e post unificazione, proveniente in massima parte dalla Sicilia occidentale, si diresse verso le coste settentrionali dell’Africa, soprattutto in Tunisia. Quella parte dell’Africa, infatti, era più facilmente raggiungibile di quella americana, le sofferenze del viaggio erano minori e da lì il ritorno a casa sarebbe stato più facile e veloce.

Numerosi furono anche quanti si recarono in Algeria, in Egitto e in Marocco. Pochissimi coloro che scelsero la Tripolitania o la Cirenaica.

 

Accanto a questi italiani, vi erano anche molti cristiani catturati e resi schiavi dai corsari tunisini che per la loro attività si muovevano nelle acque del Mediterraneo. Infatti, fino ai primi anni dell’Ottocento era cosa frequente incontrare pirati nel Mediterraneo e la Sicilia era una delle mete preferite tanto che ne furono penalizzati anche i commerci e il trasporto dei passeggeri.

Negli anni ’60 dell’Ottocento, fra i collegamenti convenzionati dallo Stato con la Società Florio, ve ne era uno, a cadenza quindicinale, per Tunisi, via Trapani.

 

Se fino alla metà circa del XIX secolo, la comunità degli Italiani era formata in buona parte da mercanti, banchieri, liberi professionisti, esuli politici, tutte persone in gran parte di buon livello culturale e, in alcuni casi, di elevato tenore di vita, gli Italiani che arrivarono in seguito, dalla seconda metà dell’Ottocento in avanti, appartennero a classi più povere sia economicamente che culturalmente. Moltissimi fra questi immigrati erano sostanzialmente braccianti, manovali, minatori e pescatori  provenienti prevalentemente dalle isole – Sicilia occidentale, Pantelleria, Sardegna, Procida …  e da altre regioni meridionali gravate da grossi problemi economici.

In poco tempo le loro condizioni economiche migliorarono notevolmente, essi divennero un elemento maggioritario e diedero vita al quartiere della “Piccola Sicilia”. Vissero pacificamente accanto alla popolazione autoctona e vi furono spesso matrimoni misti con scambi culturali. 

Questa emigrazione corse parallelamente ai flussi migratori che si dirigevano verso le Americhe, facilitati dalle navi a vapore e dai transatlantici che solcavano l’Atlantico. Le compagnie di Rubattino e di Florio, oltre al trasporto di merci, garantivano, infatti, il trasporto di passeggeri che non avrebbero più rivisto la loro patria e i loro affetti se non saltuariamente; emigrati che con grossi sacrifici e grandi rinunce cercarono di garantire un futuro migliore non solo a sé e alle nuove famiglie, ma anche alle famiglie d’origine: “cu nesci rinesci” sarebbe stato da quel momento il convincimento e il detto popolare di molti paesani (Chi emigra, o all’estero o in patria, sicuramente farà fortuna con facilità).

 

Nel 1896 l’accordo franco – italiano, confermando lo status quo degli Italiani, a suo tempo definito dal trattato italo – tunisino del 1868, e stabilendo uguaglianza di trattamento fra Italiani e Francesi, per quanto riguardava i diritti civili, contribuì a migliorare i rapporti fra le due comunità fino alla conclusione della Grande Guerra.

 – Dopo l'Ottocento

Anche dopo l’Ottocento il numero degli Italiani in Tunisia è stato considerevole, superando quello dei francesi.

I Siciliani, pur acquisendo nel tempo caratteri culturali tunisini, chiari in particolare nei prestiti linguistici, mantennero complessivamente le loro tradizioni, coinvolgendo in esse anche la gente del posto: la festa dell’Assunta del 15 Agosto, per esempio, a La Goulette come tuttora a Trapani, aveva il suo momento culminante nella processione della Madonna.

Così come d’abitudine a Trapani, la statua dell’Assunta veniva portata per le viuzze della città; ai Siciliani si univano anche musulmani ed ebrei praticanti, mentre i Francesi, per mantenere la loro superiorità anche in campo religioso, nel 1910 proclamarono Giovanna d’Arco protettrice de La Goulette.

Scambi culturali in genere e linguistici in particolare avvenivano naturalmente in entrambe le direzioni. Furono soprattutto le parole della pesca, dell’agricoltura e della falegnameria – mestieri a cui prevalentemente si dedicavano i Siciliani – ad essere apprese dai Tunisini; anche nell’arte e nell’architettura si ritrova spesso l’impronta della nostra penisola. Alla Goletta, infatti, sono rimaste costruzioni in stile liberty e molte espressioni siciliane sono usate ancora dai Tunisini più anziani.

La comunità italiana scomparirà quasi completamente dalla Tunisia fra il 1943 e il 1970, dopo che ne verrà dichiarata l’indipendenza. Partita dalla Tunisia, per “ritornare” in Italia, la comunità, formata ormai prevalentemente da persone nate e cresciute in quel lembo di terra, subì un grosso trauma sotto molti aspetti: da molte testimonianze emerge spesso una mancanza di autoriconoscimento nella realtà italiana che comunque non poteva appartenere  a persone che non vi erano mai vissute, pur riconoscendola come la patria dei loro genitori e/o dei loro nonni. D’altra parte l’Italia non offrì loro che una fredda accoglienza, anzi spesso ostile, al “rientro”, e spesso, dopo viaggi lunghi e estenuanti, li ospitò in campi profughi, sporchi e male attrezzati, dove soffrirono per la fame, per la sete e per il freddo, tanto che quei profughi ebbero la sensazione di essere ospitati in campi di concentramento.

 

Dall'intervento del Prof Alfonso Campisi al POMERIGGIO CELEBRATIVO della LINGUA SICILIANA – Palermo 17 Gennaio 2018:

 

 

Il Prof. Alfonso Campisi è docente di Filologia italiana e romanza alla Facoltà di Lettere dell’Università de la Manouba – Tunisi

                                                  

                                                                                                                                                               Note

 

1  –  F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. 2, Sellerio Editore Palermo, p. 244 torna su

2 –  L. Franchetti, Condizioni politiche e amministrative della Sicilia, Donzelli Editore,  p. 87 – 88 torna su

3 –  F. Renda, Storia della Sicilia dalle origini ai giorni nostri, vol. 3, Sellerio Editore Palermo, p.1093 torna su

4L. Adamic, Dynamite, Bepress, p. 8 – 9 torna su

5     F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, Sellerio Editore Palermo, vol. 2, p. 290 torna su

6 –   L. Adamic, Dynamite, Bepress, p. 49 torna su

7 –  L. Adamic, Dynamite, Bepress, p. 22 torna su

8 –  F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. 2, Sellerio Editore Palermo, p.273 – 274 torna su

9 –  F. Renda, Storia della Sicilia dal 1860 al 1970, vol. 2, Sellerio Editore Palermo, p.290 torna su

 

BIBLIOGRAFIA

 

                                                                                                                                                                     © Antonina Orlando 17 Maggio 2018

 

 

SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 3

2 commenti su “SI PREPARA LA PRIMA GUERRA MONDIALE 3”

  1. Articolo molto interessante perchè prospetta la Storia da punti di osservazione nuovi e inediti, almeno per me.

    Ho letto con attenzione la revisione storica sull'operato di Garibaldi, riportando stupore ma anche un pò di sconcerto. Lo so bene che che il racconto storiografico non scorre sul filo dei sentimenti e umori personali, ma il Garibaldi della mia infanzia, l'eroe dei due mondi, Anita…Ma è giusto così : luci e ombre!

    Altro aspetto degno di interesse riguarda l'emigrazione dei siciliani in Tunisia, fino ad arrivare a Siciliani DI Tunisia! Questo fa riflettere sul  Mediterraneo come mare di unione e non di lacerazione!

    Complimenti a Mantano

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