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TRA PASSATO E PRESENTE (La bisnonna che vide Garibaldi )

TRA PASSATO E PRESENTE

(La bisnonna che vide Garibaldi)

 

Ancora in molti sulla spiaggia, nel magico tramonto: alcuni a divertirsi dentro l’acqua, fra il riverbero del rosa che variegava suggestivo le trasparenze azzurre del cielo e si scioglieva nel violetto e nell’indaco dell’orizzonte; altri sulla sabbia tiepida, infervorati dietro la rete della pallavolo; altri, asciugamano in spalla, con ombrelloni, borse e piccole sdraio, sulla via del ritorno, seguendo la scia luminosa degli ultimi raggi di sole sul dorato della sabbia, sul verde vivace delle foglie e dell’erba, sui fiori intensamente variopinti e smaglianti.

Tutto, intorno, brulicava di vita, suoni, profumi.

Dal lato del mare, il recente susseguirsi di nuovi piccoli locali, colorati e turistici, dall’aria tropicale, e la loro musica allegra e decisamente ritmata. Di fronte alla spiaggia, sul lato opposto della strada, varie strutture ricettive, invece delle casette semplici ed essenziali della gente modesta di molti anni prima. Esse avevano un aspetto moderno e pittoresco al contempo e mostravano la spontanea e doverosa accoglienza di una volta. Ai tavoli dei bar, l’inusuale professionalità del personale, era mitigata dalle maniere cordiali e semplici dell’antica abitudine paesana, e lasciava spazio considerevole a un fare genuino e confidenziale, quando si avvicinava alla clientela locale e dei dintorni, irrigidendosi in un atteggiamento quanto più possibile compìto, allorché riceveva le ordinazioni dell’avventore “forestiero”.

I noti profumi della gastronomia tradizionale pervadevano l’aria, mentre persone mai viste, discorrevano e scherzavano nei modi e nella parlata che le erano familiari.

Risalendo la vicina strada, all’incrocio con la via del mare, pur essa ammodernata, Anna arrivò dapprima alla Casa del Mal Essere, dove, come da piante selvatiche, ricoperte di marzapane, ma intrise di veleno, germogliava quanto serviva a generare malintesi, liti e rancori fra molti malcapitati.

Poi, proseguendo un poco verso sud, in direzione di quella che fu un tempo la stazione ferroviaria, e attraversando l’importante arteria viaria che percorre il paese da est a ovest, raggiunse il vecchio rudere di una bella e signorile villa liberty. Un rudere, come tanti, ricco di storie e vicissitudini ora liete, ora tristi.

La fabbrica originale del palazzo era ampia e molto articolata. La facciata correva lungo la via principale, mentre la parte posteriore guardava verso la ferrovia ormai silenziosa, ma frequentata un tempo da locomotive a vapore, poi da “littorine” e, in ultimo, da treni via via più moderni e veloci.

Le ali del palazzo, pur deboli e abbandonate, continuavano ad abbracciare il cortile non più festoso, colorato e alacre, ma trascurato e senza vita attorno al suo grande vecchio pozzo, a cui molti, per diritto, potevano attingere, sia zii e cugini, i cui appartamenti si affacciavano nel cortile stesso, sia parenti non abitanti più in paese.

Racchiuse dalla cinta muraria, ancora in condizioni dignitose, le stanze interne, ridotte ad un ammasso di macerie ed esposte ad ogni sorta di intemperie, alla presenza di Anna si rianimarono e tornarono ad essere belle e luminose, frequentate dalla vita passata.

Comparve allora l’esile figura di una donna piccolina di statura e oltremodo anziana. Anna riconobbe in essa la sua bisnonna ultracentenaria, così come quando i suoi sensi ne presero coscienza per la prima volta.

Era avvolta dai vestiti lunghi e scuri con i quali la ricordava; la nuvola ariosa e disordinata dei bianchi capelli crespi e ribelli formava, come sempre, un gomitolo gonfio e aggrovigliato sul capo e attorno al volto scarno e serio. Si aggirava lenta per la camera, tastando qua e là muri e mobili, per indovinare il percorso che i suoi occhi appannati non le indicavano più. Accanto le stava di continuo una giovane donna premurosa, pronta a guidarla e a soccorrerla nel momento del bisogno.

I primi tre anni e mezzo della vita di Anna coincisero con gli ultimi tre anni e mezzo della vita di nonna Sara; eppure, la ricordava bene Anna e sapeva tante cose di lei.

Figlia del sindaco di un paesino vicino, ancora bambina, vide Garibaldi, sfidando il divieto paterno, mirato a proteggerla.

Mentre il padre, infatti, nella sua veste di sindaco, si recava a ricevere il “liberatore”, portatore di giustizia e di nuovi stili di vita, lei trovò il modo di uscire di casa e, indossando un vestitino bianco, si mescolò alla folla, radunatasi per l’occasione.

“Era biondo e bello” – ripeté sovente in seguito prima ai figli, poi ai nipoti.

Divenuta anziana e cieca, la vecchietta dovette fare i conti con la nuova tecnologia che avanzava ed entrava nelle case delle famiglie comuni. Così si ritrovò a meravigliarsi tutte le volte che sentiva una voce provenire da “quella scatola”, come chiamava la radio. Parlava a lungo l’uomo dentro la “scatola”, e ad essa nonna Sara si avvicinava, comprensiva, appoggiandovi sopra le mani:

“Poveretto, come fa a stare qua dentro?” – chiedeva.

E subito dopo soggiungeva – “Chissà come si stanca a parlare così tanto! Dategli un bicchiere d’acqua, poverino!!! …”.

Fra i brandelli di fatti ed eventi che spuntavano qua e là, sfilacciandosi e ricomponendosi, sopravvenne la ricorrenza dei Defunti.

Nella sala da pranzo la famiglia si sta preparando a recitare il Santo Rosario per le loro anime: c’è anche nonna Sara.  

Sul tavolo ovale è già stato posto un prezioso centrino di filo bianco, con eleganti disegni intagliati e ricamati al centro e ai bordi. Su di esso vengono ora disposte le foto in bianco e nero dei cari morti. Dinanzi a loro brillerà la tremula fiammella della “lampa”, uno stoppino di cera bianca acceso e posto dentro un anellino di metallo, assicurato a tre piccoli cubi di sughero. La metà inferiore dello stoppino, fuoriuscendo dall’anello su cui poggia, pesca il nutrimento necessario alla combustione, immergendosi nell’olio di oliva che galleggia sull’acqua. Questa riempie i due terzi di un antico bicchiere di vetro, trasparente e un po’ segnato dagli anni.

Nella stanza sono pronte sedie e poltroncine: vi prenderanno posto uomini e donne. Le donne formano tre gruppi: il primo delle più anziane, in abiti molto scuri o neri; il secondo delle più giovani, anche loro vestite molto sobriamente; infine il terzo che comprende le bambine, più libere nella scelta dei colori indossati, ma tenute ad un comportamento serio e ad un tono di voce accuratamente basso e controllato. 

Quando tutto è silenzio, la preghiera ha inizio: Pater noster …, Ave Maria …, Requiem aeternam, … risuonano nella stanza in un sommesso mormorio. I piccoli ripetono le parole suggerite sottovoce dall’adulto vicino. Tutti sembrano personaggi proiettati su un vecchio schermo cinematografico, in un’atmosfera rarefatta. Un vecchio film che poco alla volta va svanendo, per lasciare affiorare altre immagini.

Oggi nonna Sara, all’età di quasi centotré anni, sta per lasciare la sua vita terrena. Alla bimba viene fatto divieto di entrare in camera, perché la nonna sta male. E, tuttavia, lei, silenziosa e furtiva, trova modo di farsi largo e, a piccoli passi, entra nella stanza e osserva: c’è tanto movimento, un andirivieni concitato che la colpisce. Tutti si intendono con pochissime parole e con cenni eloquenti. C’è anche una strana figura, vestita in modo particolare; è vicina al letto dell’ammalata e ha in mano oggetti non comuni. Nei suoi paramenti sacri, il parroco sta amministrando l’Estrema Unzione, ma Anna non conosce ancora quel rito.

Ad un tratto alcune parole la raggiungono: “E’ morta”… Neanche il senso profondo di queste parole le è ancora chiaro.

Il giorno successivo Anna vide in strada, vicino al portone di casa, un carro trainato da due cavalli ammantati di nero. Una cassa di legno venne adagiata fra i due ripiani del carro. I ripiani erano tenuti insieme da quattro colonnine. Le colonnine, in alto, all’estremità che sporgeva dal tetto, portavano, ognuna, una lampada accesa; dal perimetro del tetto scendeva una tenda nera con i bordi ondulati e dorati e, pur senza raggiungerla, si   protendeva verso la bara attorniata da molti fiori.

Poi, sul selciato prese a risuonare il rumore delle ruote di legno che giravano lentamente, avvolte dai loro cerchioni di ferro, Ogni tanto uno schiocco di frusta si intrometteva fra lo scalpitio cadenzato degli zoccoli dei cavalli; e, dietro il feretro, il sussurato rincorrersi delle parole degli oranti.

Il corteo, passo dopo passo, prese ad allontanarsi e si perse in fondo al rettilineo, inghiottito dalla curva.

La piccola Anna guardava dal balcone che dava sulla strada, incuriosita ed emozionata da quei fatti nuovi e ricchi di mistero.

La rivide, in seguito, la sua bisnonna, in forme diverse, ma pur parte della contemporaneità della vita quotidiana. Erano trascorsi poco più di vent’anni, da quando Anna, da un angolo del balcone, aveva osservato curiosa quel carro e il suo allontanarsi verso il fondo del rettilineo. E ora l’anziana donna veniva riesumata assieme al marito, morto parecchi anni prima di lei. Il marito era un uomo alto e robusto e, per questo, di tanto in tanto, in famiglia veniva chiamato scherzosamente “il gigante” … lui, dal canto suo, sorridendo, diceva di avere un “petto d’acciaio”. Morì di polmonite e le sue ossa furono raccolte in una cassetta, seppure di dimensioni eccezionali. La cassetta fu posta accanto alla bara della moglie, il cui corpo asciutto e piccolino, rimase integro, solo con la pelle più scura e lucida. Era ancora avvolta nei veli con cui era stata adagiata nel suo ultimo lettino.

Da lontano, nei magici tramonti d’estate, il mare azzurro e il cielo, fine e serica porcellana rosa e indaco, li avvolgono, pervasi dall’infuocato splendore del sole cadente, mentre, nel costante alternarsi delle generazioni, la voce dei paesani ormai sconosciuti, li raggiunge con i modi e i suoni della nota parlata familiare.

                    © Antonina Orlando 01 Novembre 2021

TRA PASSATO E PRESENTE (La bisnonna che vide Garibaldi)

 

 

 

 

 

 

ALL’OMBRA DEL GLICINE

         

 

ALL’OMBRA

all'ombra del glicine Anna trascorre i suoi primi anni

 

DEL GLICINE

      

All’ombra del glicine – In un tranquillo e ridente paesino sul mare, Anna trascorre i suoi primi anni di vita con nonna Valeria, la sua mamma – nonna, come ama chiamarla.

Valeria, donna tanto intelligente, quanto buona, saggia e paziente, alleva con molto affetto la nipotina che le sarà sempre grata e affezionatissima …

Oggi è un luminoso e tiepido giorno di primavera e la bimba sta giocando seduta in terrazza.  

   Dopo qualche tempo …

“Nonna, posso scendere in cortile a giocare con la bicicletta?”

“Va bene, Anna! Stai attenta, però!”

  Due grosse e lunghe trecce castane, fermate ciascuna da un anello dorato, le danzano allegramente sulle spalle, mentre, quasi volando, corre giù per le bianche scale, fra il muro e una bellissima ringhiera scura in ferro battuto.

  Ai riccioli della ringhiera è intrecciato un antico glicine:

il tripudio dei suoi grappoli, da poco sbocciati, colora l’aria e la profuma delicatamente, mentre il tenero viola – azzurro dei fiori, ora più ora meno intenso, contrasta allegro e pittoresco con le verdi, tenere foglioline e con i tralci che, lunghi e verdi anch’essi, si protendono eleganti e morbidi lontano dai rami.

Ne risulta una filigrana variamente smaltata che, in trasparenza, impreziosisce lo spazio intorno alla pianta e, più in alto, intarsia l’azzurro del cielo.

Il glicine corre lungo tutta la scala e si inerpica su per le terrazze del primo e del secondo piano, seguito dal ronzio delle api nere che ne corteggiano i fiori profumati e dolci di nettare. Da lì, maestoso, dopo avere formato pergole e ammantato i muri, il vecchio albero incornicia festoso tutto il cortile, tappezzando le ringhiere superiori e abbracciando uno splendido geranio rampicante.

E il vecchio albero incornicia festoso tutto il cortile, ... abbracciando uno splendido geranio rampicante.questo, dalla bianca aiuola del terrazzino, con smaglianti fiori di porcellana rosata e foglie carnose, si propende flessuoso e ricco di vegetazione giù nel cortile che acquista il sapore di un fiabesco quadretto pastorale.

   Dopo il triciclo, Anna gioca ora con la sua prima biciclettina.

“Mi piace rossa” – aveva risposto quando le avevano chiesto che colore preferiva.

Ha ancora bisogno delle rotelline, ma presto imparerà a farne a meno.

“Vai e guarda avanti! Vedi? Sai già andare!” – le dirà, fra qualche giorno lo zio, – “Non avere paura!”

E lei, a sua volta: “Non mi lasciare!!!”, – gli raccomanderà alquanto preoccupata.

 “Non temere, ti tengo dalla sella … vedi che sai andare … attenta! … Brava!!”

Il glicine corre lungo tutta la scala ... grande pozzoLa piccola ciclista pedala per molto tempo: lo spazio è tanto e può correre a lungo, inventandosi mille percorsi diversi fra il grande pozzo, il magnifico gelso e l’altissima, rigogliosa palma.

Poi, dopo chissà quanto tempo, decide di tornare su e di cambiare gioco.

  Risale, allora, svelta le scale, con leggerezza.

Le api nere le aleggiano intorno con veloci e intensi fruscii, facendola sussultare: presagio, forse, di tristi fatti  futuri.

    In terrazza la tartarughina lenta e senza fretta passeggia sulla terra battuta, rosicchiando di tanto in tanto qualche tenera foglia di insalata.  La nonna, seduta al solito posto, pulisce la verdura per il pranzo: è costantemente presente con la sua rassicurante tranquillità; sempre intenta a sbrigare qualche faccenda e pronta a intervenire nel modo giusto, al momento opportuno.

“Che fai, nonna?”

“Vedi? Sto pulendo i broccoli”

“Come si fa?”

“Siediti qua, guarda!”

“Mi fai provare?”

“Tieni: togli le foglie e poi stacca tutti i fiorellini che si sono aperti, come faccio io”

“Va bene così?”

 “Sì, brava!”

“Abbiamo finito? …  Allora vado a giocare!”

 Mentre la nonna continua il lavoro con il coltellino, osservando contemporaneamen- te la nipotina, Anna prende la sua palla colorata e, lanciandola contro il muro:

“Palla dorata, dove sei stata?”

– va chiedendo al suo giocattolo che, rimbalzando e tornandole prontamente fra le agili mani, risponde alle domande con la stessa cantilena:          

“Dalla nonna”

“Che ti ha dato?”

“Un’arancia”

“Dove l’hai messa?”

“Nel grembiule”

“Fammela vedere”

“Eccola qua!!!”

E la palla/arancia cade nel lembo del vestitino che Anna, con prontezza, ha abilmente sollevato e ripiegato in su, per raccoglierla.  

 Nei pomeriggi, specialmente quelli lunghi d’inverno, la sua fantasia e il suo animo sono incantati e rapiti dalle fiabe, dalle storie e dalle filastrocche che la nonna le racconta:

“… e quando arrivò la strega cattiva, la scala cominciò a salire e scendere, la porta cominciò ad aprirsi e chiudersi violentemente da sola e il bastone cominciò a roteare minaccioso in aria, facendola scappare … e poi la inseguì, la inseguì, la inseguì lontano lontano, da dove non poté più tornare …”

La bimba non si stanca di ascoltare …  

“Nonna, mi racconti di Giufà?”

“Ormai pronta per uscire, la mamma disse a Giufà”:

 “Giufà, io vado in chiesa. Quando finisci, tirati dietro la porta e vieni in chiesa pure tu”.

“Va bene, mamma!”

 “Poverina” – intercala nonna Valeria – “lei era tranquilla in chiesa, ma … sai cosa ha combinato Giufà?”

“Cosa?” – chiede Anna che ascolta con attenzione e curiosità il racconto perennemente nuovo.

“Che ne sai, tu!” – prosegue la nonna ora ripetendo, ora introducendo nuove e accattivanti espressioni che stuzzicano e coinvolgono la piccola.

“Giufà pensò, pensò e ripensò”:

La mamma mi ha detto:

“Quando esci, tirati dietro la porta!”

“Cosa vuol dire? … Ah, ecco! Devo portarmi dietro la porta!”.

“Perciò staccò la porta, se la mise sulle spalle e andò in chiesa.”

“Ah,ah,ah” – un risolino divertito interruppe per poco il racconto che, dopo una breve, saggia pausa, riprese alla richiesta impaziente: “e poi che successe?”.  

“Povera donna!” – rispose nonna Valeria – “Puoi immaginare, quando sentì tutto il pandemonio, provocato da Giufà che trascinava la porta nel silenzio della chiesa!

Tutti si voltavano a guardare! Che vergogna!!!”

“Giufà! Cos’hai fatto?!” – Esclamò esterrefatta.

“Ho fatto quello che mi hai detto, mamma: mi son tirato dietro la porta!!!”.

E a questo punto una nuova risata argentina si sente  vibrare allegra accanto alla nonna.

                                           © Antonina Orlando 19 Gennaio 2021

 

ALL’OMBRA DEL GLICINE

LA RICORRENZA DEI DEFUNTI (dai ricordi di Anna)

LA RICORRENZA DEI DEFUNTI – I crisantemi a bagno nelle bacinelle – macchia di colore in un angolo della terrazza – avevano varia forma, e molti petali erano raccolti su se stessi, quasi in un abbraccio che costruiva batuffoli colorati. Ve ne erano di bianchi, di rossi, di viola, di arancio e di gialli; alcuni di una monocromia più o meno intensa, altri che sfumavano in venature contrastanti o su tinta … tutti adagiati sulle loro foglie verdi.

Le variazioni cromatiche tenui o intense si associavano al profumo non forte, ma dotato di una nota caratteristica, e tutto l’insieme ricordava all’animo la ricorrenza dei defunti.

Quelli che altrove sono fiori da regalare in momenti di allegria, lì e in quegli anni, cominciavano ad imprimere ad Anna l’immagine dei cimiteri e della ricorrenza dei morti.

A poco a poco, Anna stava imparando che bisognava recarsi in visita ai parenti defunti.

Tutte le volte che entrava in cimitero, sentiva il silenzio avvolgere la sua persona e i suoi pensieri; esso era disturbato soltanto dal lieve calpestio di chi si muoveva fra le tombe e da un parlottio sussurrato .. segni di rispetto per la pace di quanti vivevano lì e per il raccoglimento di chi, accanto alle loro tombe, lasciava trapelare tristezza o conformità alle usanze tramandate.

I bimbi imparavano doveri, facevano domande sottovoce, osservavano i gesti degli adulti e il brulichio incessante attorno alle tombe, circondate da preghiere, commenti, curiosità, ricordi, racconti trascorsi sulla bocca di generazioni.

La fragranza che il rosmarino emanava dalla siepi lungo la strada, il linguaggio del cielo, pur qualche volta illuminato dal sole, le tinte autunnali, il tepore delle giornate che ormai veniva meno e le temperature più basse che ne prendevano il posto, erano lo sfondo e la cornice da cui quel giorno, più degli altri, emergeva.

Dopo la visita ai “morticini” che l’avevano tanto attesa, alla nonna che era rimasta a casa si raccontavano impressioni ed eventuali incontri con i vivi del tempo terreno.

       La giornata era ormai sul finire e la nonna raccomandava ai nipotini di stare calmi e tranquilli, perché, a mezzanotte, i defunti sarebbero scesi loro giù in paese a vedere i parenti.

Una lunga teoria di anime che, con un lumino acceso, sarebbero passate accanto alle case e vi sarebbero entrate portando soldini e dolcini ai bimbi buoni.

Gli occhi di Anna si riempivano di lunghe e morbide camicie tenuamente colorate e di tanti profili rischiarati dalla fiamma dei lumini accesi.

Bisognava andare a letto molto presto e lasciare una scarpetta in vista.

I “morticini” non volevano essere scoperti e con un sorriso avrebbero lasciato soldini nella scarpetta e dolcini sul comodino: pere, ciliegie, mele, arance, mandarini …gherigli di noci e ortaggi vari … marzapane dolcissimo in forme naturali, dipinte così bene da sembrare vere, con frammisti gli “ossicini dei morti”, dolci di zucchero.

Felici la mattina del giorno successivo, il due di novembre, i bimbi sarebbero andati in cerca l’uno dell’altro, mostrandosi scambievolmente i doni ricevuti.

Chi ne aveva di più? Chi era stato più buono?

Le loro indagini non evidenziavano mai grosse differenze e, se qualche diversità si notava, essa era solo apparente, perché, a guardar bene, un dolcino più piccolo era compensato da un altro di dimensioni maggiori.

A pomeriggio inoltrato, infine, si univano ai grandi e, ripetendole lentamente dopo averle ascoltate, imparavano le preghiere di rito che il coro della famiglia recitava per i defunti.

© Antonina Orlando 02 Novembre 2018

LA RICORRENZA DEI DEFUNTI (dai ricordi di Anna)

MARINA E I FANTASMI BURLONI ovvero Il calcio sotto il tavolo

Marina e i fantasmi burloni

ovvero

Il calcio sotto il tavolo

“Vedi, cara Anna, a volte i fatti hanno spiegazioni e verità che noi non riusciamo a cogliere: quello che ci sembrava d’aver visto non era vero; quello che ci sembrava d’aver udito, non era stato detto; quello che ci sembrava d’aver capito, era sbagliato.

Non bisogna esprimere giudizi, spinti dalle prime impressioni e basandosi sulle apparenze.”

  “Ma, se io ho visto qualcuno fare qualcosa e ho udito qualcuno dire qualcosa, come posso sbagliarmi? Io l’ho visto! Io l’ho udito!” – insisteva la bimba dalla sua piccola sedia, posta davanti a quella molto più alta della nonna.

La grande casa si apriva sul mondo e il mondo entrava in casa con il moto e il suono della vita …; si diffondeva piacevole e variegato nelle stanze luminose e serene … e in quelle chiare e fiduciose dell’animo di Anna, riempiendone ogni angolo e impreziosendole per sempre di colori e graffiti, opacità e trasparenze luminose …:   il chiacchierio della gente per strada; esclamazioni spensierate; il pianto di un bimbo e la premura di una mamma; il calpestio ritmato e sonoro degli zoccoli di un cavallo; il rotolare delle ruote di un carretto sul selciato; lo schiocco di una frusta e la cantilena di un venditore ambulante …; dei muratori cantavano; un martello percuoteva l’aria, risuonando a distanza; qualche auto transitava; un camion trasportava mattoni …; un treno, sferragliando e fischiando, entrava nella stazione vicina …; giù nel cortile il lamento di una sega elettrica variava di altezza e intensità, seguendo il lavoro del falegname; bambini giocavano allegri; adulti attendevano alle normali attività quotidiane …; il vento dolce e leggero aleggiava per ogni dove …; le api legnaiole ronzavano rumorosamente sul terrazzino – nere nel profumo azzurro-viola del glicine fiorito – e svolazzavano di tanto in tanto in casa, anche attorno ad Anna impaurita.

Tutto era naturale, la mancanza di quelle manifestazioni abituali avrebbe creato scompenso e disagio.

Con la semplicità che la caratterizzava e che trasmetteva amore, saggezza e grande esperienza, l’anziana donna rispose:

“Molte volte, Anna, sono i nostri pensieri a vedere e sentire al posto nostro; sono le nostre storie e le nostre esperienze ad informarci; le nostre abitudini di vita e le nostre emozioni ci suggeriscono giudizi; ciò che abbiamo sentito in giro e ciò che ci aspettiamo dagli altri ci fanno interpretare azioni e parole. E poi, Annuccia cara, molte delle parole che senti ti sembrano uguali a quelle che usi tu; invece, spesso, chi le usa dà loro un senso diverso da quello che tu dai loro o le usa in modo scorretto.”

“Che vuol dire, nonna?”  – Chiese Anna – “Non capisco!”

“Quando parliamo” – riprese nonna Valeria – “le parole che usiamo esprimono pensieri, cultura, sentimenti, il nostro modo di vedere i fatti, la nostra sensibilità, il nostro tentativo di raggiungere uno scopo … tuttavia, non sempre siamo in grado di farci capire, perché ci riferiamo a concetti o usiamo modi di dire che gli altri a volte non conoscono e non condividono.

Ti racconto due storielle semplici, realmente accadute e significative.” – disse ancora nonna Valeria ad Anna – “Stammi a sentire: la prima è molto breve, la seconda un po’ più lunga”:

Anna si volse verso la sua nonna e lei cominciò:

C’erano una volta tre donne: una mamma molto anziana di nome Silvana, la figlia Marina e Agnese, loro parente.

“Perché l’hai guardata da dietro la tenda e non ti sei affacciata per salutarla?”

 – Fece a un tratto con molta amarezza l’anziana madre, lasciandosi andare sulla poltroncina che ne sorreggeva il corpo ormai quasi senza forze.  –

Marina ricordò…

... La brezza che arrivava dal mare vicino faceva ondeggiare lentamente la tenda dietro la finestra. Attraverso le imposte accostate, nella  penombra della camera, entrava una sottile e larga lama di luce che formava disegni fissi o in movimento su soffitto e pareti.

Il gioco di luci e ombre generato da quell’assieme e intravisto dalla strada, dietro i vetri velati dai merletti in movimento, componeva, probabilmente, il profilo di una figura, creando l’illusione che una persona nascosta spiasse….

E’ stata l’illusionepensò Marina a innescare malumore e lamentele in chi guardando dal basso e credendosi osservata, decise di accusare.

La figlia cercò di spiegare e dire le sue ragioni, sperando di tranquillizzare la povera madre, ma lei era ancora molto scossa dal racconto del fatto e, per di più, era molto condizionata dal ruolo che aveva assunto Agnese nella sua vita. Questo non le permise di lasciarsi convincere dalla verità. La cosa più dolorosa per Marina fu che in quel cuore stanco scorgeva  un senso di sofferenza, di frustrazione e di sospetto che le sue parole non riuscivano a rimuovere. 

Agnese, che non aveva avuto il coraggio di rivolgersi a Marina, era realmente abituata a nascondersi dietro le tende.

“Ed ecco il secondo racconto; ascolta”:      

Era un giorno di festa.  

Molti ospiti erano riuniti attorno alla tavola imbandita per la cena. Come gli altri, anche Marina, assieme al marito che le stava accanto, rideva e scherzava; ma quale fu la sua sorpresa, allorquando, accostatasi a lui per commentare il gusto di una delle tante pietanze saporite, incredula e sorpresa, in mezzo ad una risata sarcastica, esageratamente prolungata, sentì nascere un inaspettato e sonoro:

“Mah … guarda!!!”.

Si interruppe all’istante e, volgendo lo sguardo intorno per capire, si vide fissata da occhi indagatori e perplessi. La voce di Luisa assunse allora il tono di un denuncia arrogante, mentre il suo viso alterato da pose artefatte, si trasformava in una maschera, reso irriconoscibile dal riso forzato:

“Gli ha dato un calcio sotto il tavolo!” 

“Gli ha dato un calcio sotto il tavolo!!!”,  – ripeté più forte, ormai fuori controllo, compiaciuta di se stessa e dell’effetto ottenuto –  “Gli ha detto che il cibo non è buono e che non deve mangiarlo. Ah! Ah! Ah!!!”

La forza della sicurezza e la fermezza dell’osservazione trascinarono immediatamente dalla sua parte gli altri commensali, ignari dell’accaduto, ma usi a dare di tanto in tanto qualche personale calcetto di prudente intesa, sotto il tavolo, al commensale vicino; cosa che la stessa Luisa era solita fare.

Fiduciosa in quello che era certa d’aver visto, con rinnovato sarcasmo, Luisa si rivolse direttamente all’interessata che esterrefatta la guardò incredula, accennando ad uno sfortunato tentativo di correzione:

 – Guarda che ti sbagli; al contrario, stavamo lodando la bontà delle portate!”

 – “Coome mi sbaglio? Coome mi sbaglio? Ah! Ah! Ah!!!”- controbatté, continuando a ridere sul suo piedistallo, lei che possedeva tutte le verità del mondo:

 – “L’ho visto io!! Io l’ho visto!!!” – affermò

 – “Hai visto sotto il tavolo?” –chiese calma Marina con un sorriso.

 – “Come no!! Un calcio sotto il tavolo! T’ho visto io!!!!”

  Marina valutò la persona e il fatto, si mantenne composta e passò oltre …

Alcuni anni dopo, Marina con il marito si recò nuovamente a cena in casa di Luisa, per trascorrervi qualche ora in piacevole compagnia, assieme ai soliti invitati.

Era una serena serata d’estate. In collina non si soffriva il caldo; anzi, un dolce venticello rinfrescava l’aria pulita. Il cielo era meravigliosamente stellato e giù, a poca distanza, si stendeva chiara la pianura, lambita dalle calme acque del mare e illuminata dalla fiamma della raffineria non lontana dal porto. La tavola, imbandita in terrazza, era piuttosto lunga: tovaglia, piatti, bicchieri, posate e tovaglioli facevano presagire allegria e giovialità.

Vicino ad essa le scintille scoppiettanti di un piccolo focolare acceso per una squisita grigliata; nell’orto sottostante un lieve stormire di foglie; intorno, proveniente dal verde intenso e profondo di alberi e piante, un dolcissimo e penetrante profumo di gelsomini avvolgeva e stemperava quello degli altri splendidi fiori sparsi in aiuole e fioriere; dalla cucina, sulla scia di aromi che stuzzicavano l’olfatto e giocherellavano con il gusto, giungevano i sapori del cibo ormai pronto.

Era dunque il momento di prendere posto.

Anche Marina e Paolo si accinsero a sedersi …, ma non fecero a tempo … un ordine perentorio intimò:

  “Marito e moglie devono sedere lontani! Non devono stare vicini!

  Uno di qua (indicando un capo della tavola) l’altro di là (indicando l’altro capo della tavola)!!!”

Marina e Paolo si guardarono intorno.

Gli invitati nei loro freschi abiti estivi, colorati e leggeri, con la pelle calda e ambrata dai raggi del sole ricadenti sulla spiaggia, erano già seduti: molti chiacchieravano, altri ascoltavano … di tanto in tanto un tono più alto e una gaia risata.

Nessuna coppia era divisa, tranne i padroni di casa per motivi strategici: lei doveva, infatti, attendere a servire gli ospiti.

Le voci di uno dei figli e delle sorelle di Luisa replicarono l’ordine, riportandone l’eco ai coniugi: 

       “Voi! … Uno di qua, l’altro di là”.

  I due si adeguarono a quello che decisero di considerare un gioco.

Passò ancora un anno e arrivò il terzo invito.

Anche Marina e Paolo  stavolta furono liberi di scegliersi un posto, e la cena si svolse nella normalità … fino a che … al dessert …

Il dolce fra le mani di Luisa si trasformò di colpo in un grossissimo uovo di pasqua, su cui la fantasia di quella donna andava disegnando affermazioni molto colorate e poco veritiere, mentre parole e parole, strato su strato, vi aggiungevano incrostazioni variopinte e multiformi.

Con un colpo da maestro l’uovo alla fine venne aperto e dal suo interno una voce rauca e lontana, lenta, seria e solenne, pronunciò altezzosa:

“Questa volta vi ho lasciato sedere vicini, ma l’anno scorso … ricordi lontaaaani!… perciò vi ho fatto sedere divisi!!!………..” 

Marina ne fu allibita e divertita allo stesso tempo …

Quelle attorno a lei, erano persone impazzite o  

  fantasmi burloni?

“Vedi, Anna: Agnese non aveva visto la verità,” – disse nonna Valeria – “ma quello che lei stessa era abituata a fare, e accusò ingiustamente Marina, mettendola in cattiva luce e generando agitazione in una povera mamma anziana.

Nemmeno Luisa aveva visto il calcio sotto il tavolo, semplicemente perché non c’era mai stato; ma lei faceva così con il marito, quando voleva fargli segno in segreto. Lei, non solo affermò il falso, ma comportandosi da persona arrogante e superficiale, divenne anche ridicola, perché non ammise correzioni e si credette tanto importante da poter emettere sia la sentenza che la punizione, trascinando per anni un fatto inesistente.

Agnese e Luisa sin da piccole erano state abituate a imporsi sugli altri, a credersi le depositarie della verità, a raccontare i fatti secondo il loro tornaconto, manipolandoli in modo da condizionare chi temeva le loro reazioni e quelle della loro famiglia. Erano abituate a considerare sempre vere le loro impressioni e a non dare ascolto e valore a quelle altrui. Erano convinte che la realtà fosse come loro se la raccontavano e, ancora peggio, come loro la volevano

Chiuse nella loro perfezione, non riuscivano nemmeno ad immaginare altri modi di pensare e di vivere … e, se pure fossero entrate in contatto con abitudini diverse, avrebbero cercato subito di correggerle, senza percepire la presunzione del loro operato.

Rifletti, Anna – aggiunse ancora con dolcezza e serietà, nonna Valeria – quelle accuse in fondo hanno causato rincrescimento e malumore nella vittima, ma, pur essendo una cosa grave, niente di più che disagio e tensione. A volte, però, affermazioni soggettive e avventate o, peggio, dettate da invidia e gelosia, possono arrecare danno e conseguenze molto gravi.”

Anna ascoltò, attenta e interessata, racconti e  consigli e, pur non riuscendo a penetrarne tutto il significato profondo, ne rimase comunque colpita, serbandoli sempre nei suoi ricordi e confrontandoli spesso, in seguito, con molte realtà della sua vita quotidiana.

                © Antonina Orlando 31 -10 – 2017

MARINA E I FANTASMI BURLONI ovvero Il calcio sotto il tavolo

IL KAFENION DI MAKIS

 IL KAFENION DI MAKIS

Delicato racconto di vita greca … semplicità, calda accoglienza, tradizione

Ad Amorgos sull'unica strada che congiunge i capi opposti dell'isola, c'è uno sperduto villaggio di bianche case cicladiche, Arkesini, da Archè, il principio.

Qui ci sono reperti archeologici risalenti al neolitico, e poi, ancora i vari strati che la Storia sa creare, distinguere e al contempo unire sapientemente, in modo misterioso. Solo i più attenti potranno accedere ai suoi arcani.

 

Il cuore del villaggio è la chiesa, un candido cubo sormontato da una cupola azzurra che osa sfidare il colore del  cielo.

Appena più avanti, una tabella appesa sull'uscio di una minuscola abitazione, segnala la presenza del kafenion di Makìs.

Makìs è un arzillo ottuagenario dal viso tondo, con due mustacchi bianchi che sbucano dall'enorme montatura degli occhiali.

Il suo aspetto rispecchia perfettamente lo stile del locale: vetusto, semplice, di nessuna pretesa, ma ordinato, curato e soprattutto accogliente!

Appena entrati, avvertiamo nell'aria, un attimo di sospensione; il nostro ingresso provoca un fermo immagine; il baffuto avventore che stava scherzando con Arghirò, una giovane donna del paese, si blocca; Arghirò da parte sua, seria ma curiosa, ci interroga con lo sguardo e Makìs si avvicina timoroso; sembra che tema di non poter soddisfare le nostre richieste.

Un gioioso Kalimera -buongiorno- e l'ordinazione: "due caffè greci con pochissimo zucchero, per favore" nella lingua locale, rimettono in moto la scena.

L'avventore rivolge di nuovo la sua attenzione ad Arghirò, rincarando la dose della bonaria provocazione, rinvigorito dalla presenza di due spettatori stranieri.

Makìs si ritira al di là di una azzurra parete di legno, dotata di aperture-finestre che a me ricorda l'iconostasi delle chiese ortodosse; si accosta al fornellino dove compie il rito del caffè con maestria ed amore.

Dispone su di un vassoio due tazzine con il caffè bollente e due bicchieri di acqua freschissima; ci serve con devozione e professionalità, pronto a soddisfare ogni nostra richiesta.

Domando se l'acqua sia buona; mi sorride soddisfatto, felice di svelarmi il suo segreto: "Vedi quel monte? E' da lì che quest'acqua scende! Bevi tranquilla!"

Chi ha sperimentato il caffè greco, sa bene che non lo si può affrontare senza cautela; va lasciato decantare perché si raffreddi; occorrono tempo e pazienza.

Ci lasciamo quindi andare ai racconti; il tempo è quasi sospeso e noi stessi ci sentiamo sospesi, avvolti in un'atmosfera di pace.

Riemergono leggende, ricordi: il vecchio pescatore che ha cessato l'attività, l'inverno passato incredibilmente gelido e l'attesa.

Sempre in Amorgos, c'è il senso magico dell'attesa; bisogna solo saperlo vedere!

Finalmente possiamo sorseggiare il caffè; il vecchietto chiede se va bene, gli rispondo che è il migliore dell'isola e lui sorride, visibilmente compiaciuto.

Mio marito gli dice che anche l'anno passato ci siamo recati ad Arkesini, ma il Kafenion era sbarrato; ci dissero che lui era ricoverato all'Ospedale di Atene.

Makis quasi si scusa della sua assenza, poi chiama la moglie Sofia per informarla della nostra visita dell'anno precedente e i due per un attimo, si commuovono.

Si instaura un forte legame  di empatia tra di noi; prima di uscire li abbracciamo.

Mentre ci avviamo all'auto, risuonano ancora nelle orecchie i loro auguri :"Kalò Kimona! Naste kalà! Buon inverno! Andate verso il bello!" e nel cuore risplende  il kafenion di Makis.

 

                                             © Andreina Arcelloni  13 – 07 – 2017

 

 

IL KAFENION DI MAKIS

 

 

LA VECCHIA CASA CON LA SCALA A CHIOCCIOLA

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LA VECCHIA CASA CON LA SCALA A CHIOCCIOLA 
(Riflessioni fra passato e presente) 


Quel problema la richiamò in paese.
Vi andò, consapevole dell’assurda realtà che rendeva quasi impossibile una soluzione razionale.

Tutto ai suoi occhi appariva diverso per misura e colore. Anche gli spazi erano cambiati: nuove costruzioni spuntavano fra quelle solite, alterando le immagini dei suoi ricordi.

Non era trascorso molto tempo dall’ultima volta che vi era stata, ma ora quella vista le causava una strana percezione: forse i recenti avvenimenti, incrinando la sua serenità, evidenziavano differenze mai notate prima. Le cose si presentavano sotto una luce non prevista e le persone non erano più quelle che credeva di conoscere. Del passato restavano solo ombre confuse e sformate che parlavano lontane e in modo nuovo, mentre intorno l'aria era fredda e ostile.

Quanto piccola è la frazione di tempo  che può sconvolgere una vita!
Quanto piccola è la frazione di tempo che può mettere in crisi le certezze umane!

Tuttavia, Anna sentiva che un pezzo di quel mondo apparteneva ancora a lei e, viceversa, un pezzo di lei apparteneva ancora a quel mondo. Decise perciò di non lasciar correre. Non era tipo da arrendersi facilmente, non era suo costume voltare le spalle alle difficoltà; al contrario, le prove le davano energia e lei scendeva sempre in campo coraggiosa e leale. Si sarebbe comportata come riteneva opportuno, anche se gli affetti, le emozioni, il ruolo vissuto in passato e le antiche abitudini, la condizionavano fortemente.

La aiutava però il fatto di non essere più, del tutto, quella di un tempo; ormai era il risultato tangibile di situazioni affrontate  e di persone incontrate lungo il suo cammino.
Così come il valore finale di un’espressione algebrica è dato dal risultato di tutte le operazioni effettuate con ordine e secondo schemi precisi, allo stesso modo ogni uomo, donna o bambino che avevano attraversato la sua vita e con cui aveva interagito in qualsiasi tempo e in qualsiasi luogo, l’avevano plasmata, arricchendo, scavando, piegando o limando i tratti del suo carattere e il suo sapere. Ogni cosa, ogni uomo, donna o bambino incontrati, erano appartenuti alle tante parentesi della vita che le era stata assegnata. Essi si erano sommati al numero racchiuso nel nido delle due prime parentesi tonde, dentro le quali si trovava la famiglia in cui era nata, rendendola la donna di oggi. Il risultato ottenuto era tuttavia provvisorio: altre parentesi tonde, quadre e graffe, in quantità imprecisata, erano infatti pronte ad aggiungersi alle precedenti per fornire infine un valore definitivo.

Si diresse alla vecchia casa.

La scala a chiocciola era ancora lì … avvolta su se stessa … Forse rifletteva sui suoi ricordi … quanti ricordi!!!   

  scala-chiocciola-2-c-1Di tanto in tanto sui gradini di ferro battuto le roselline intagliate dal fabbro erano accompagnate da nuove finestrelle ricamate dalla ruggine: anche da lì filtrava luce attraverso squarci di forma e dimensioni mai uguali. Esse, interrompendo l’armonia del disegno dell’uomo, ne creavano una nuova, nata dalla mano della natura. 
I muri della casa cominciavano a sgretolarsi come i suoi anni … non più corse, riso o capricci di bimbi su e giù per le scale di marmo; non più giochi in terrazza e in cortile; non più pericolose e veloci discese sullo stretto corrimano di ferro della scala a chiocciola, tra il viola – azzurro dei grappoli fioriti del glicine e il verde variegato delle foglie; non più richiami preoccupati di adulti.

Nella mente della donna riemergevano grandi stanze luminose, stanze dalle tinte pastello e dai soffitti fioriti; rispuntavano pesci con stelle marine e conchiglie, sullo sfondo verde – marrone della vegetazione che correva in basso,  lungo le pareti della sala … dal pavimento fino superare di poco la testa  di una piccolissima figura di bimba…
All’istante però, tutto sfumava nella polverosa cortina della fuliggine attuale, nell’incerta penombra delle imposte mal chiuse e deformate, nel solaio pericolante, nelle pareti rovinate e cadenti e nel vuoto assordante.
Scomparsi i volti ora dolci ora severi che l’aiutarono a crescere e a sognare. Spariti quei bimbi divenuti ormai uomini e donne. Non più l’ingenuità e l’istintiva apertura dell’animo ai cari compagni di gioco; non più la spensierata fiducia. Ora solo i pensieri dei “grandi”. Ricordi rivisitati e filtrati da occhi pensanti, da gioie e dolori vissuti, da sogni realizzati e da speranze deluse; animi cresciuti in mondi diversi e non più facilmente leggibili l’un l’altro.

cortile-3-b  Eppure, abbandonata fra la fitta selva degli alti cespugli che avevano invaso il cortile, proibendolo agli altri, e che avevano avvolto l’antico pozzo sino a nasconderlo quasi pietra preziosa, la vecchia casa continuava ad essere bella nel mistero della sua vita solenne e solitaria: quel verde incolto la racchiudeva, mentre il ficus rigoglioso e spontaneo, la custodiva e la proteggeva dalla terrazza, levandosi in alto maestoso e possente; il cielo con pennellate sfumate d’azzurro l’abbracciava dolcemente; la scala fra le due terrazze si era arricchita di merletti; le profonde screpolature sui muri e le finestre sbiadite e pericolanti parlavano dello scorrere del tempo: rughe sul volto degli uomini a testimoniare percorsi di vita, lunghe riflessioni, gravi pensieri, ma anche tanti sorrisi e allegre risate.

Cosa ne sarebbe stato della villa e della vita che vi era stata vissuta? Forse tra poco sarebbero state spazzate via … forse qualcuno se ne sarebbe preso cura … o forse …

La sensibilità e i progetti di chi vi aveva abitato bambino erano diversi, ma sicuramente in tutti continuava a regnare un pizzico di nostalgia e un po’ di affetto per quel luogo che ora ricordava le fiabe, i castelli incantati, i rovi cresciuti per invidia e gelosia di maghe e maghi dispettosi, i sonni profondi delle fanciulle punte dall’arcolaio di una strega e il giovane principe che con il suo bacio le risveglia alla vita, dopo una lunga lotta contro il male.
In mezzo ai rovi dorme la Bella Addormentata; in mezzo al bosco vive l’umanità, l’amicizia e la solidarietà dei nani verso Biancaneve … quella casa avvolta da erbe, fuliggini e pericoli, forse continuava a portare in grembo una nuova lezione di vita, un premio per chi, seppure adulto, avesse avuto voglia di raccogliere la sfida e accettare di crescere ancora dentro di sé (“A vecchia avìa cent’anni e ancora avìa ‘nsignari” – recitava un vecchio proverbio del posto –: “L’anziana (donna) aveva cento anni e ancora doveva imparare”).

 scala-chiocciola-5-f-1  Il vento leggero le sfiorava delicatamente le guance e si spargeva profumato e lieve attraverso le narici in tutti i tessuti del suo corpo, allargandole il respiro; il cielo azzurro sopra la sua testa e dentro i suoi occhi la rapiva e le faceva scalare quei leggeri ciuffi di nuvole … radi e dipanati batuffoli di ovatta bianca che qua e là macchiavano il celeste di trasparenze lattiginose; l’odore del mare vicino le rinnovava il desiderio di correre in spiaggia, attraversare la sabbia bollente e giocare felice dentro l’acqua fresca, fra il moto delle onde, ora impercettibile, ora invece agitato e pauroso.

Abbassò la testa, respirò profondamente e comprese che ora toccava a lei ricordare storie incantate, come un tempo faceva la sua nonna.

“Chi l’avrebbe detto? Chi l’avrebbe immaginato? …”  “Panta rei” le ricordarono i suoi vecchi studi: tutto passa, tutto scorre … com’era vero! …, ma – pensò –   scorrere è trasformarsi e trasformarsi è vivere. “Questa è ficus-4-cvita” – si disse – “La trasformazione è vita. Se io non fossi cambiata, non sarei vissuta, e se non mi stessi trasformando, non starei vivendo. Io cambierò ancora nel corpo e nell'animo, ma continueranno a cambiare anche le cose e le persone intorno a me". Questa riflessione le fece bene e la risvegliò.

Scattata qualche foto ricordo e raccolti i suoi pensieri, considerò la realtà presente, prese per mano la bimba di ieri e la donna di oggi e, determinata, con tanta speranza, si rimise in cammino.

                                 © Antonina Orlando  04 – 01 – 2017

 

 LA VECCHIA CASA CON LA SCALA A CHIOCCIOLA

L’ACINO DELLA TENACIA

 

IlImmagine1 treno avanzava lungo verdi prati trapunti di fiori colorati, di bianche margherite e di rossi gerani; superava case, agrumeti e oleandri rosa, bianchi, cremisi. Oltrepassava velocemente anche le colline circostanti, dalle quali  pini marittimi e gialle ginestre guardavano verso il piano e verso l’azzurro del mare poco distante. Un nastro di sabbia finissima tenuemente dorato, largo e continuo, seguiva il profilo della costa, separando la calma distesa marina dal verde e dai colori circostanti.

Anna, sempre accanto al finestrino, non si lasciava sfuggire nessun particolare di quello spettacolo straordinario, illuminato da un sole stupendo. Da una parte il verde e i colori dei campi, dall’altro le strie celeste chiaro o blu intenso delle correnti marine che si diramavano in direzioni diverse, le macchie chiare delle navi lontane e le petroliere rossastre con la loro forma particolare. L’aspetto del mare variava di continuo e il suo azzurro intenso sfumava all’orizzonte in lievi colori, confondendosi con le tinte del cielo sereno. Anche lassù in alto lo spettacolo era interessante e solleticava la fantasia e MARE PINI GINESTREl’immaginazione: rade nuvole bianche, infatti, artisticamente sfilacciate, si spostavano velocemente, seguendo la corsa del treno e assumendo forme sempre diverse.

Di tanto in tanto il treno sostava in qualche stazione. “Che stazione è?” – era la domanda – e la risposta dei compagni di viaggio era ascoltata sempre con molta attenzione.

Dopo Villafranca, si entrava nel cuore dei Peloritani, in gallerie sempre più lunghe man mano che si procedeva verso Messina. Una di esse era lunghissima: la metà del suo percorso veniva segnalata da uno strano suono, che ad Anna, bambina di pochi anni, sembrava quello di piatti di metallo che cadevano.

Era partita la mattina presto assieme ai suoi, quel giorno, per andare a trovare una zia di circa sessant’anni d’età.

La donna, vedova, abitava con le sue figlie. Era di statura piccolina, i suoi capelli, di un grigio ormai chiaro, erano terribilmente crespi. Li portava raccolti sulla nuca e trattenuti da tante forcine, mentre mollette e pettinini cercavano di tenere a bada quei fili ribelli che non accettavano di stare lontano dal viso e dagli occhi. Incarnava la figura di quelle  padrone di casa che sanno tenere tutto sotto controllo; infatti, lei  riusciva a badare contemporaneamente alla cucina, alle figlie e agli ospiti. Questi ultimi, poi, erano trattati con il massimo della cortesia e della premura, pur nella familiarità della parentela.

Si capì subito che l’arrivo era atteso con piacere e tutti si mostrarono, come sempre, affettuosissimi e felici della visita.

Il tempo che precedette il pranzo, trascorse velocemente tra le chiacchiere degli adulti e il girovagare di Anna per ogni angolo della casa, dove riusciva a trovare sempre qualcosa di interessante da osservare o con cui giocare.

Purtroppo, non c’erano altri bambini; così, anche a tavola, a parte qualche breve coinvolgimento, dovette accontentarsi di sentire parlare, parlare, parlare: erano discorsi di grandi, che a tratti ridevano, a tratti mostravano vene malinconiche, a tratti alzavano la voce, raccontando fatti spiacevoli con toni che la preoccupavano.

piatto di pastaCome sempre la cucina era squisita e le pietanze riempivano l’aria di profumi invitanti, ma lei mangiò pochissimo – a sentire il giudizio degli adulti – anche se, in realtà, si sentiva a posto. Così, alla fine del pranzo, proprio al momento della partenza, le furono rivolte molte osservazioni; si trovò soprattutto al centro dell’attenzione preoccupata della zia, la quale, secondo le buone e ben note abitudini siciliane, non avrebbe permesso che la nipotina andasse via senza mangiare ancora qualcosa.

Come avrebbe potuto affrontare il viaggio?

Sicuramente il non aver mangiato a sufficienza (i parametri con cui valutava erano del tutto personali) avrebbe causato alla nipote un terribile stato di debolezza, di cui lei stessa si sarebbe sentita responsabile.

Fra il numero e l'abbondanza delle portate e i lunghi discorsi appassionati, il pranzo si grappolo d'uvaera prolungato parecchio e si era fatto già tardi. Non c’era tempo da perdere, Anna doveva accettare assolutamente qualcosa, subito, fosse anche solo un grappolo d’uva.

Accettare o non accettare il grappolo d’uva significò ben presto mettere in gioco il proprio prestigio personale; divenne lo scopo per cui si stava disputando una partita importante fra la donna e la bimba.

Le forze in campo presentavano una decisa disparità. La zia, non più giovane, era chiaramente la più forte. Godeva, infatti, oltre che del vantaggio dell’età e dell'esperienza, anche del tifo della maggior parte degli adulti: chi di loro fosse stato  incerto o avesse parteggiato in cuor suo per la bimba, avrebbe tenuto conto dell’obbligo sociale ed educativo di tacere. Anche l’idea che, una volta a casa, Anna avrebbe potuto mangiare qualcosa di particolarmente sostanzioso, non era destinata ad ottenere molto successo:

il non dare ragione ai bambini di fronte alla parola di un adulto, era uno dei punti fondamentali della pedagogia seguita dalle famiglie che Anna conosceva.

Il tempo correva e bisognava sbrigarsi, per non perdere il treno. La poverina si sentiva incalzata da ogni parte, ma, pur così piccolina com’era, non cedeva; anzi, più aumentava l’insistenza, più sentiva crescere dentro di sé la voglia di dire “No!”

Qualcuno riuscì a mediare: “Dai, Anna, accetta almeno un acino. Cos’è un acino? Non è la fine del mondo! Mettilo in bocca: farai presto a mandarlo giù, ti sentirai meglio e la zia sarà più tranquilla”.

La mediazione funzionò: la donna si arrese al compromesso …

… e l’interessata?

Ad Anna venne in mente un’idea straordinaria: avrebbe vinto, pur mostrando di lasciarsi convincere dall’insistenza generale. Tutti avrebbero pensato di avere avuto partita vinta e non avrebbero capito nell’immediato che, mostrando di accontentarli, alla fine era stata proprio lei a spuntarla.

Giustizia e dignità sarebbero state salve!

MANINA CON ACINOOrmai alle corde, ma con la chiara percezione della vittoria, fece una mezza concessione e quell’ “almeno un acino” diventò immediatamente “uno solo!”.

Tutti si ritennero soddisfatti dal cedimento: la zia, che aveva potuto dare il viatico alla nipotina; i familiari, che avevano anche evitato di perdere il treno, e lei, Anna, con il suo unico acino e con la risorsa delle sole armi a sua disposizione.

Dal momento in cui accettò l’acino, Anna o si mostrò inspiegabilmente muta o parlò in modo inspiegabilmente strano. La maggior parte delle risposte che concedeva erano comunicate a cenni o con poche parole, pronunciate in modo inusuale. Adoperò di preferenza il linguaggio gestuale … fino a quando …

Rifecero a ritroso il percorso fra la casa dei parenti e la stazione ferroviaria. Lungo la strada nessuna parola. Sul treno le venne chiesto se fosse stanca o se avesse sonno: le sue spallucce si alzarono, accompagnate dal movimento della testa che reclinava a destra, mentre contemporaneamente le sopracciglia si inarcavano e la mimica di tutto il viso diceva “un po’!”.

Avevano già preso posto nel compartimento e il treno si era mosso. Gli adulti parlavano OLEANDRO ROSA E BIANCOe commentavano: lei ascoltava e guardava case, alberi, prati e fiori che le correvano incontro, sparendo all’ingresso in galleria e ricomparendo nuovamente, quando il treno tornava all’aperto. Alla sua sinistra le dolci colline ricoperte di verde e fiori variopinti, a destra la lunga e profonda striscia azzurra del mare al di là della fertile campagna o dietro qualche gruppo di case, in prossimità dei paesi. Il tutto avvolto dalla morbidezza e dal calore di un bel tramonto ancora estivo.

Si era ormai quasi alla fine di quel tragitto, la cui durata complessiva superava di poco lo spazio di un’ora. Il lungo silenzio cominciava a diventarle pesante. Anna aveva tante cose da chiedere e da dire, senza dimenticare che spesso le veniva posta qualche domanda a cui puntualmente rispondeva con cenni del capo o con qualche parola male articolata.

 La sua resistenza, però, si mantenne salda e tenace, fino a quando decise che era giunto il momento di svelare l’arcano.

Era stata proprio brava; ne era convinta e si congratulava con se stessa. Nessuno aveva sospettato niente.

Adesso, però, assieme alla soddisfazione per la bravura, si insinuava nel suo cuoricino, che sentiva palpitare forte, un po’ di disagio; non sapeva, infatti, quali sarebbero state le reazioni degli adulti di fronte alla verità.

“Ma” – ripeteva nella sua mente – “alla fine, non volevo più niente e l’uva, poi, assolutamente no! Sono stata costretta a dire di sì!

La scena era sempre viva dentro la sua testolina e gli attori continuavano a muoversi e a parlare nel loro mondo, senza curarsi del suo.

Il “cosa diranno” la rese esitante qualche minuto ancora …, ma presto si fece coraggio e, dopo aver guardato i genitori e lo zio, si rivolse istintivamente alla cara,  paziente e rassicurante figura della nonna …

“Tieni, nonna,” – le disse farfugliando, ma facendosi capire, … e la sua manina sicura, da sotto la lingua, estrasse, ancora intatto, l’acino d’uva.

Il silenzio profondo degli attimi seguenti espresse lo stupore generale.

Ad esso seguirono le più svariate manifestazioni sonore d’incredulità e di tardiva preoccupazione per quello che sarebbe potuto succedere in seguito ad un colpo di tosse, ad un movimento brusco o ad una fermata improvvisa del treno.

Non si contarono le espressioni del tipo: “E tu hai tenuto tutto questo tempo l’acino sotto la lingua?!” “Cose dell’altro mondo!” “ E se ti fosse andato di traverso?!” “Per questo quando parlavi, non si capiva bene cosa  dicevi!”. Ma l’esclamazione più bella di tutte, istintiva e soprattutto poco ponderata, fu:

“Potevi dire che non lo volevi! ….”

I commenti naturalmente durarono molto a lungo, vista la portata del fatto. Non solo si prolungarono per giorni e giorni, ma si allargarono a dismisura, perché parenti e amici ne furono informati. Anna passò per un fenomeno e il ricordo di quella bravata rimase per sempre.

Quando si voleva sottolineare la sua  fermezza nelle decisioni ritenute giuste e necessarie, si diceva:

“Già, tu sei quella dell’acino d’uva!”. ACINO

 

                                                                                                     

 

                                                      © Antonina Orlando 17 Maggio 2015

 

 

TESTIMONIANZE E RICORDI

Nella ricorrenza del centenario della partecipazione dell'Italia alla Prima Guerra Mondiale, sarebbe cosa interessante e bella ricordare che anche molti Siciliani furono chiamati a difendere e ad allargare i confini del Regno d'Italia, nato da pochi decenni.

Molti partirono per il fronte convinti dell'ideale della Patria e spinti dal senso del dovere; altri senza la piena coscienza delle motivazioni di quel conflitto.

Tutti, destinati ad enormi sofferenze e spesso alla morte, andarono verso terre e climi che non conoscevano, agli ordini e in compagnia di uomini con cui, per lo più, non avevano ancora in comune nemmeno la lingua.

Non sempre e non da tutti il loro sacrificio viene riconosciuto. Per questo ho pensato di raccogliere le testimonianze di quanti ancora ricordano qualche racconto di nonni.

Chi volesse aderire a questa iniziativa o ricevere informazioni può scrivere su facebook (antonina.orlando.315@facebook.com ) o più sotto, nello spazio riservato ai commenti.

Spero, comunque, in una condivisione. GRAZIE.

© Antonina Orlando 06 Maggio 2015

MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA

stelle e coriandoli  MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA

 Pagliacci coloratissimi con simpatici nasi rossi e con parrucche variopinte, famose mascherine e tanti altri allegri personaggi, animavano festosamente i negozi ricchi di coriandoli, cappellini e stelle filanti,  calamitando occhi affascinati.

  Qualche mamma si affrettava a completare il lavoro prima dell’ultima domenica di carnevale e nell’originalità della creazione trasferiva emozioni, colori, sfumature e figure del suo spirito. I soggetti scelti, sia nuovi che tradizionali, prima di essere realizzati, attraversavano le maglie della sua immaginazione e della fantasia dei figli.

 Anche Anna realizzava ogni anno personalmente i costumi dei suoi bimbi che, curiosi, la seguivano nel lavoro, ponendole mille domande. L’Estate, la Primavera, il Signor Bonaventura, la Fatina dai capelli turchini, i maghetti, l’omino di neve, avevano tutti un tocco personale e originale e, soprattutto, non si trovavano in nessun negozio e su nessuna rivista.

Mentre cuciva, la giovane mamma con il pensiero andava spesso indietro nel tempo e ricordava quando, bambina e piena di entusiasmo, era lei a mascherarsi …

 Da una cassapanca di legno massiccio e antico, con il coperchio bombato, tirava fuori abiti che facevano rivivere l’atmosfera di un’epoca antica. Un tempo in cui le donne andavano con i vestiti lunghi e con i capelli raccolti sulla nuca o sciolti e inanellati sulle spalle. Si muovevano lente, con un fascino ormai inusuale, dentro le lunghe e larghe gonne fruscianti.

Assieme alle cugine, lei frugava nello scrigno, tirandone fuori camicie da notte, gonne, vestaglie e calze finemente lavorate a maglia, come un merletto. Sangalli, trine e nastrini facevano bella mostra di sé sul bianco delle tele di cotone o di lino, impreziosendo con minuti trafori poliedrici colli, polsini e corpetti.

Ognuna delle bambine sceglieva un capo che, con un po’ di fantasia, potesse adattarsi alla sua figura e ai suoi gusti. Capelli pettinati opportunamente (Anna li aveva lunghi e ne otteneva acconciature e code invidiabili), un po’ di trucco con i rossetti delle mamme, un velo di cipria, una manciata di coriandoli ed ecco la trasformazione.

 Andavano, poi, in giro per le case di parenti e conoscenti, felici di non essere mai riconosciute o di venire riconosciute a fatica.

La gioia era tanto maggiore quanto più le mascherine credevano di non essere state scoperte ed era grandissima per chi era convinta di essere riuscita a mantenere l’anonimato più a lungo delle altre.

 Oltre a questo modo di “vestirsi da carnevale”, ve ne erano altri mille e tutti prevedevano un tocco di creatività.

Anna amava vestirsi da contadinella con una gonna di cotone, arricciata in vita, vaporosa, e intessuta con fiori colorati e con rose rosse sul bianco dello sfondo, macchiato qua e là dal verde degli steli e delle foglioline. Il giro vita della gonna tratteneva garbatamente una morbida, candida camicia; le sue maniche venivano fuori da un gilè di velluto liscio, nerissimo, su cui poggiava il colletto della stessa camicia che aveva la prima abbottonatura slacciata. Sui capelli era posato un cerchietto verde con cinque roselline rosse, realizzato dalla stessa Anna con l’aiuto di una zia che aveva il compito di aiutare le bimbe a realizzare o a completare con gli accessori idonei il proprio vestitino. Tutte si esercitavano a costruire cerchietti con fil di ferro ricoperto da carta crespa verde e roselline, anch’esse di carta crespa, rossa, ritagliata e lavorata opportunamente, in modo da formare dei petali, da comporre in boccioli per il cerchietto.

Dalle loro mani usciva un’infinita varietà di cappellini, mascherine e bacchette magiche, mentre, tra risate e scherzi, trombette, ritagli di giornali, carta colorata, coriandoli e stelle filanti inondavano il pavimento delle stanze lasciate a disposizione per i “lavori”.

 All’ora del pranzo, quando dalla cucina arrivava l’invito a lavarsi le mani e a sedersi a tavola, Anna, Agnese, Luisa e Marta lasciavano tutto, si preparavano e si sedevano ai propri posti, accanto agli altri cugini, attorno al tavolo più piccolo, perché quello più grande era riservato agli adulti

Il buon profumo del sugo di maiale, sparso già per ogni dove, impregnava deliziosamente l’aria e invitava gioiosamente alla festa, mentre, secondo il solito rito, venivano conditi i “maccheroni di casa”, preparati il giorno precedente con l’ausilio di tutti:

la mamma impastava; poi, dalla pasta formava le “corde”, da cui le bambine più piccole ricavavano bastoncini pressoché uguali fra loro per lunghezza e diametro; le bambine più grandi lavoravano i bastoncini con il ferro, ottenendone i maccheroni. Gli uomini stendevano la pasta ad asciugare. Alla fine si faceva il maccherone grosso. Chi se lo fosse ritrovato nel piatto, avrebbe suscitato le risate generali e sarebbe stato apostrofato come il Carnevale dell’anno.

Maccheroni, carne di maiale e patatine fritte, insalata e salsiccia caratterizzavano il pranzo di quel giorno. Come dessert, frutta,  le inevitabili frittelle farcite di ricotta o cioccolato, pignolata e cannoli. Discorsi, scherzi e risate coronavano e arricchivano la mensa.

beppe nappa 2  Nel piccolo paese di Anna le tradizioni affondavano le loro radici nella notte dei tempi e, pur alquanto rivisitate, si mantengono ancora oggi fra le nuove generazioni. Gli anziani continuano a raccontare la storia della maschera locale, Beppe Nappa, e delle loro tradizioni

 Anna stava completando l’ultimo costumino, quando il suo pensiero andò ad altri carnevali, più o meno ricchi e famosi, di altre città.

Si ritrovò così in una domenica pomeriggio di qualche anno prima. Cercava di spingere il passeggino del suo bimbo in mezzo ad una folla immensa, colorata e festante. Non era sola, ma nessuno fra quanti l’accompagnavano riusciva a trovare una calle, dove poter camminare più comodamente.

PUPI VENEZIA artistica  Il raduno di gente a Venezia in un’occasione come quella di carnevale è cosa risaputa, ma quella volta non erano previste le enormi dimensioni del fenomeno. Lo spettacolo su dai ponti era straordinario e sapeva di surreale.

Una marea umana riempiva calli, ponti, campi e campielli. Fra una maschera e l’altra non c’era spazio. Nessuno sarebbe potuto cadere, nemmeno per un eventuale malore; molti, infatti, l’avrebbero sorretto involontariamente con la prossimità del proprio corpo. Onde caleidoscopiche oscillavano lentamente, senza sosta, mentre un mormorio indistinto si librava nel cielo, spargendosi in ogni dove. Non si andava dove si voleva, si andava dove la massa spingeva e …, immerso in quella folla così inaspettatamente enorme, il povero passeggino pensava di potersi fare strada! Non solo, pensava addirittura di poter andare su e giù per ponti e ponticelli, verso la sua meta!

“Bisogna esser mati!” – urlava chi vedeva a rischio l’incolumità del bimbo – “chi podeva saver …!” controbatteva qualcuno dei compagni d’avventura di Anna, che intanto cercava una soluzione.

All’improvviso, senza saper come, il percorso fu libero e si trovò tranquilla e sicura al riparo di un muro di contenimento: erano giovani dal corpo robusto che, pronti e generosi, avevano arginato la folla, mentre, con le forti braccia piegate ad arco, poggiando le mani al muro lungo il quale correva la parte terminale del ponte, formavano una galleria. Anna passò in fretta, ma, quando si girò per un nuovo segno di gratitudine, non vide più nessuno. Così come in silenzio e determinati erano giunti, allo stesso modo, senza farsi notare, i giovani sparvero tra la gente, senza che nessuno sapesse chi fossero o potesse salutarli .

BATMAN ESTATE CLOWN artistica  Ormai il lavoro era completato e i vestitini furono pronti in tempo. Erano davvero belli: Estate, Batman e il pagliaccetto.

© Antonina Orlando 16 Febbraio 2015

 

MACCHERONI DI CASA … MASCHERE … CARNEVALE A VENEZIA