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LAVORIAMO IL SUGHERO

LAVORIAMO IL SUGHERO

 

 

 

 

 

 

 

 

   Il 6 Giugno scorso, Luisa Pisano, presidente dell’Associazione culturale “Nosu impari”, ha inaugurato la mostra “Lavoriamo il sughero”. La mostra è stata allestita con i lavori degli allievi del corso “La lavorazione del sughero”, tenuto dal maestro Marcello Pisano, nell’autunno del 2019 e, purtroppo, non più riproposto a causa della successiva pandemia.

Fra i molti oggetti artistici presentati (portagioie, portatovaglioli, portapenne, quadretti …)

 

emergono quadri e sculture che propongono ambienti, tradizioni e folclore sardi.

 

Nella mostra sono esposte anche opere di Marcello Pisano. Tali creazioni si ispirano alla mitologia delle “Janas”, sorta di fate/streghe che popolavano i boschi dell’isola.

Piccoline di statura (circa 25 centimetri), – come spiega Marcello – bellissime in volto, molto intelligenti e oltremodo laboriose (usavano strumenti e materiali preziosi come l’oro), esse avevano la loro casa (Domus) nei sepolcri scavati nelle rocce dalle antiche civiltà sarde, non si sa con l’utilizzo di quali strumenti (ascia a mano? punteruoli di selce?). La funzione delle Domus de Janas – aggiunge Marcello – era collegata alla credenza religiosa di continuità tra la vita fisica e la vita oltre la morte. Da secoli racconti affascinanti tramandano le loro storie, adattandole ai vari paesi, e ancora oggi molti scrittori ne elaborano di nuovi, arricchendo il mito delle “Janas”.

Buoni o cattivi (Mala Janas), questi esserini, parte integrante e significativa della cultura sarda, in grado di rendersi invisibili, aumentare di statura, muoversi in mezzo alla popolazione senza farsi riconoscere, hanno spesso ispirato l’autore che li ha ripensati, riproponendoli in dipinti e sculture.

Di seguito esempi tratti dalla serie “I colori della Sardegna” accanto a quelli facenti parte della mostra:

(La Jana buona gioca con la Jana cattiva – della serie “I coloiri della Sardegna”)

(la Jana che si adorna con gli Asfodeli – della serie “I coloiri della Sardegna”)

(Sa Maista – della serie “I coloiri della Sardegna”)

 

Opere presenti alla mostra:

(Mala Giana)

(Alla ricerca delle origini)

 

La mostra resterà aperta al pubblico fino al 9 Giugno dalle 15,00 alle 18,00, nella Sala Esposizioni della Circoscrizione 5, in via Stradella 192, Torino.

 

© Antonina Orlando 09 Giugno 2022

 

LAVORIAMO IL SUGHERO   

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

NORBERTO BOBBIO – L’ESEMPIO DI SILVIO TRENTIN

NORBERTO BOBBIO – L’ESEMPIO DI SILVIO TRENTIN – Domenica 27 Giugno 2021, alle ore 11,00, presso il Bar Pietro – piola sardo – veneziana di Torino, secondo pre/tesTO conviviale post lockdown: “Bobbio legge Trentin”.

Nel corso dell’incontro, Pietro POLITO (Direttore del Centro Gobetti di Torino), Giuseppe SCIARA (UniBo) e Filippo M. PALADINI (UniTo) hanno presentato il volume “NORBERTO BOBBIO – L’ESEMPIO DI SILVIO TRENTIN – SCRITTI 1954 – 1991”, a cura di Pina Impagliazzo e Pietro Polito, Centro Trentin di Venezia, Firenze University Press, Firenze 2020

 

Nella breve e interessante introduzione, il Prof. Paladini ha ricordato fra l’altro il padre, Prof. Giannantonio Paladini, che a Venezia contribuì moltissimo alla valorizzazione della figura di Silvio TRENTIN sia con studi (lavorò assieme a Pizzorusso, Moreno Guerrato e Norberto Bobbio), sia reperendo i fondi necessari per l’edizione nazionale delle opere del giurista. Si tratta di cinque volumi, uno dei quali curato appunto da Giannantonio Paladini.

 

Il pensiero e gli scritti maggiormente significativi di Trentin sono stati illustrati successivamente dai tre relatori sulla base della lettura fattane da Norberto Bobbio e in riferimento al contesto storico – culturale della sua formazione.

In modo particolare si è dialogato sui temi chiave del pensiero di Trentin e delle sue proposte per la soluzione dei problemi sociali a lui contemporanei.

Si è parlato, perciò, sia della “terza via”, sia delle autonomie e del federalismo integrali, senza tralasciare, tuttavia, confronti ragionati con realtà e problemi odierni.

 

Di seguito, alcuni momenti degli interventi

 

© Antonina Orlando, 02 Luglio 2021

 

NORBERTO BOBBIO – L’ESEMPIO DI SILVIO TRENTIN

GINA PREVITERA – TRADIZIONE, CULTURA E ARTE NEL CASTELLO DI MILAZZO

GINA PREVITERATRADIZIONE, CULTURA E ARTE NEL CASTELLO DI MILAZZO

 

 

 

 

 

 

 

Il ritorno al Castello di Milazzo

Mantano è tornato al Castello di Milazzo il 15 Maggio scorso.    

In una giornata umida ha ripercorso l’imponenza della Fortezza e la bellezza del paesaggio marino, su cui si staglia la rocca. Era una giornata umida sì, ma la suggestione e i colori ne venivano solo trasformati e impreziositi, ammorbiditi com’erano dalle tinte alquanto sfumate e dai lievi contrasti, mentre qualche nuvola, diradandosi, creava uno squarcio, attraverso cui la luminosità vittoriosa dava risalto qua e là allo smalto di isolati angoli di terra.

Giunti ormai vicini al convento delle Benedettine, ecco, accogliente e sorridente, la figura del maestro Pracanica, il Kuntastorie che in quel convento non si stanca di raccontare, mimare e abbellire tantissime leggende, storie e tradizioni per centinaia di visitatori, adulti e bambini, provenienti da ogni parte del mondo.

La collaborazione fra marito e moglie

Nel laboratorio, all’interno del convento, egli lavora assieme alla moglie, la preziosa collaboratrice che gli sta a fianco nella vita quotidiana e nell’arte.

Gina, questo il suo nome, mite e dolce signora, ma al contempo valida e competente artigiana/artista, è l’insostituibile supporto e completamento del lavoro di Nino, anche lui artigiano, oltre che scrittore e attore.

Ogni opera, dunque, è il risultato della collaborazione fra marito e moglie: generalmente è Nino a preparare tavole e vari altri articoli, ma è Gina a completare quel lavoro di base con incisioni, pitture e intarsi, spesso grazie ad un lungo e appassionato lavoro:

 

Gina lavora con abilità e con grande passione

Gina lavora con abilità e con grande passione. Una passione che non si esaurisce nel tempo, ma che sembra rinnovarsi in forza e vigore dopo la realizzazione di ogni manufatto.

E’ grazie a lei, infatti, se la Bottega d’Arte è una delle migliori cento botteghe italiane (Corriere della Sera, 28 luglio 2016).

L’entusiasmo la anima costantemente, oltrepassa la stanchezza, ne annulla gli effetti negativi e genera costantemente uno studio filologico sugli stessi materiali antichi, nel desiderio di rendere l’opera più vicina possibile a quella autentica, alla verità storica, alle tecniche originali.

 

Strumenti di uso antico e materiali di riciclo

Per il suo lavoro adopera strumenti di uso antico, ma anche materiali di riciclo: dipinge con polveri ottenute da elementi naturali e vegetali e la sua tecnica risale agli antichi Egizi; la lucidatura avviene con pietra d’agata e il risultato è duraturo nel tempo, al pari dei disegni e delle decorazioni che ci sono giunti dalla civiltà egizia. Come i vecchi falegnami, costruisce cornici in legno senza usare chiodi, e la fervida fantasia crea intarsi e abbellimenti, rinnovando forme e misure degli scarti di cuoio, di legno e di oggetti ormai in disuso, i quali acquistano nuova vita e nuovo valore.

Da antiche basi in cartone, su cui poggiavano le famose “cassate” siciliane, nascono supporti per diversi tipi di realizzazioni:

 

Gina e la storia della Sicilia

Su di essi Gina schematizza sapientemente storie e simboli, su cui trascorre la storia della Sicilia, raccontata dai popoli su di essi rappresentati, dai simboli disegnati, dai fatti esposti, mentre il marito se ne serve per drammatizzare storie, favole e miti. Gina e Nino difendono così i valori originali della Sicilia e raccontano le sue vicende e i suoi abitanti servendosi di tutto ciò che producono; infatti, – afferma Nino – “Noi possiamo raccontare la Sicilia attraverso i simboli, i popoli, attraverso i pupi, attraverso i dipinti, attraverso i tablet romani, i giochi … ”.

E la Sicilia diventa una bella donna al centro del Mediterraneo avvolta da mille profumi inebrianti, riccamente ornata dai colori dei suoi fiori e dalla dolcezza dei suoi frutti, desiderata e corteggiata da tutti i popoli che sin dalla preistoria ne sono stati attratti. La società siciliana è matriarcale e la Madre Sicilia ha raccolto ogni seme lasciato da ciascun popolo, per farlo germogliare e per ottenerne cultura

 

Alcune realizzazioni con materiale riciclato

Con materiale riciclato, fra le mani di Gina spuntano giochi egiziani:

ritorna il “tablet” romano, come lo chiama scherzosamente Nino:

nascono giochi e ricordini attuali:

ma anche oggetti di uso comune, come espositori per monete e portapenne:

riproduzioni di particolari architettonici:

quadri, cornici e molto altro:

 

Arte, cultura, modestia … e umanità

Nei locali in cui svolgono la loro attività i coniugi Pracanica, si assiste giornalmente a eventi teatrali culturalmente significativi e lì Mantano ha incontrato capolavori di scultura, restauro, pittura, lavorazione del cuoio; ha conosciuto la modestia di Gina e la sua semplicità, la sua creatività e la grande volontà che la anima.

Lei è artista da sempre: se ne è resa conto da ragazzina. All’età di tredici anni – ha raccontato – ha aiutato la sorella in alcuni lavori scolastici: il suo intervento è stato fantastico e ha suscitato la gratitudine della sorella e l’ammirazione di quanti hanno avuto modo di osservarne i risultati.

A quattordici anni collaborava già in un atelier, pur non partecipando a mostre, in quanto molto giovane.

Alla creatività, all’abilità manuale e alla continua elaborazione della tecnica, Gina unisce grandi doti umane e la capacità di trasfondere, soprattutto nelle immagini prodotte, la vita interiore che la anima, dando agli sguardi delle immagini realizzate un’espressività intensa e profondamente spirituale. Particolare il suo interesse per il restauro delle icone bizantine

 

 

Ma i materiali usati, purtroppo, non sono più uguali a quelli di un tempo

 

Il restauro

Gina si applica con altrettanta cura in numerosi altri lavori di restauro, sfruttando la competenza e l’esperienza acquisite nel tempo. Fra i tanti lavori su cornici dell’800 e dipinti, riportiamo il recupero di una Madonnina (Maria Bambina), caduta a terra durante una processione, e i restauri dei vetri dipinti, appartenenti ad una collezione di Bernabò Brea:

Gina ha una grande umanità – dicevamo – un’umanità che emerge nelle opere, certo, ma anche nella quotidianità della sua vita e che sa far convivere con l’attività di artigiana/artista, nonché collaboratrice del marito.

Si direbbe che l’esistenza dell’uno non potrebbe essere senza quella dell’altro.

L’estro, l’entusiasmo e ogni attività pratica dell’uno trovano riscontro nella laboriosità, nella creatività, nella modestia, nella forza volitiva dell’altra.

E’ stimata e amata da lui che ne elogia la fermezza unita a dolcezza, serenità e saggezza; è adorata dalle figlie, grate per le sue amorevoli cure e per i consigli e gli insegnamenti ricevuti nelle varie tappe della loro giovane vita e che ancora continuano a ricevere; è ammirata e tenuta in gran conto da quanti l’hanno conosciuta.

In passato, ha trasferito il suo laboratorio in un angolo della casa, dove, con maggior serenità e soddisfazione, ha potuto assolvere il suo compito di moglie e madre di bimbe piccole, continuando a realizzarsi come restauratrice competente di opere di grande valore e come artista/artigiana o “Magistra Artis”, come meglio viene definita da Sergio Todesco ( N. Pracanica, “Le savoir faire” di Gina, p. 27).

“La casa governata da Gina è divenuta nel tempo un tempio sacro.

Ha preso forma e si è adattata alle esigenze della evoluzione della famiglia.

Così, per seguire meglio le figlie, Gina ha preferito trasferire a casa il suo laboratorio. Ne è risultata una casa d’artista; ma anche un luogo di pace e serenità, con spazi per tutti i componenti della famiglia e per l’accoglienza degli ospiti.” (N. Pracanica, “Le savoir faire” di Gina, p. 19)

 

La speranza di Gina

Il desiderio più grande che le vive dentro il cuore, è quello di trasmettere ai giovani le sue conoscenze e, in particolare, il suo entusiasmo. Hanno bisogno di entusiasmarsi, di credere, di voler realizzare, per vivere e crescere bene; hanno bisogno di imparare a fare, a dare e a condividere – lo dice con convinzione e cerca di metterlo in pratica, insegnando nel suo laboratorio.

 

 

L’attività didattica

Oltre a dirigere assieme al marito un Centro d’Arte presso il Castello di Milazzo, dove l’abbiamo incontrata, “… per tre anni, … , nella affascinante sede del Castello di Montalbano Elicona, Gina ha diretto (in collaborazione col marito) una Scuola d’Arte, su progetto e fondi della Comunità Europea e ha realizzato un museo didattico di strumenti musicali. … (N. Pracanica, “Le savoir faire” di Gina, p. 18).

Di seguito una piccola dimostrazione di strumenti musicali nati dal lavoro collaborativo di Nino e di Gina:

 

 

“Le savoir faire” di Gina

Nino ha dedicato alla moglie il libriccino “Le savoir faire” di Gina, di cui abbiamo letto sopra qualche saggio e che – dice l’autore– non riesce a descriverne pienamente le qualità:

“Queste pagine non potranno mai descrivere la preziosità di Gina, le sue capacità, il suo amore, la sua semplicità, il valore del suo sorriso, le sue qualità artistiche-artigianali di restauratrice, la sua dedizione alla famiglia, che lei ha servito e amato con rarissima sensibilità, accortezza, delicatezza e costanza. … Gina è una creatura delicata; bisogna accostarsi a lei con molta accortezza e grande rispetto, nel tentativo di riuscire a percepire le sue immense doti … Da Gina si impara vedendola all’opera e in azione … nei silenzi della sua infinita compostezza, bellezza e spiritualità” (N. Pracanica, “Le savoir faire” di Gina, pp.5-6).

La stessa attenzione per l’antico e per la tradizione, emerge nella vita privata della donna: “Gina ha mantenuto sempre vive alcune importanti tradizioni di famiglia. Fra tutte spicca quella della cucina araba.

Ella custodisce … molte ricette che realizza con lo stesso amore con cui affronta la vita quotidiana e il suo lavoro.” (N. Pracanica, “Le savoir faire” di Gina, p. 21)

 

I valori comunicati dallo stile di vita

E, se è vero che entrambi tendono a far conoscere storia e realtà siciliane, se intendono ricercare costantemente la verità storica e filologica in ogni espressione artistica, informandosi, studiando, indagando, se ancora questa ricostruzione è il sentiero su cui camminano e se il loro fine ultimo è quello di consegnarla ai giovani e ai giovanissimi, come loro personale “contributo alla società” e come testimone da trasmettere ai pronipoti, è anche vero che a tutto ciò vanno aggiunti altri importantissimi valori comunicati dal loro stile di vita: la condivisione gratuita del sapere – bene inestimabile –, la consapevolezza di potersi migliorare interagendo l’uno con l’altro, in un continuo scambio di esperienze, contenuti e ricchezza spirituale, la consapevolezza che uguaglianze e diversità sono complementari fra loro. Nino confessa con semplicità e con forza l’importanza della presenza di Gina nella sua vita di uomo e di artista. In Gina considera le doti che l’hanno conquistato quando l’ha conosciuta e durante tutti i momenti storici e spirituali della sua esistenza; quelle doti che l’hanno aiutato a “crescere”, ad agire … a vivere la sua vita. Gina, tuttavia, diventa anche un simbolo: il simbolo di tutte le donne che possono essere faro e sostegno nel cammino dell’Uomo e dell’Umanità. La donna è il fondamento e la ragione della società: lei accoglie, elabora, produce, preserva e conserva; dà la vita materiale e custodisce la tradizione con il suo lavoro, come dicono entrambi.

 

Il racconto delle Gelsominare

Ed è con un omaggio ad una particolare categoria di donne che si conclude quello che possiamo definire un incontro piacevole per la pacatezza, la cordialità, la signorilità che l’ha contraddistinto, ma parimenti arricchente per l’esperienza, la saggezza e la cultura che ha trasmesso.

Riportiamo di seguito il racconto delle “Gelsominare”, giovani donne e madri di famiglia che nella Piana di Milazzo raccoglievano i fiori dei gelsomini per le grandi industrie di profumi italiane e straniere. La loro condizione era davvero misera: esse lavoravano moltissime ore, curve, spesso scalze. La ricompensa ricevuta era irrisoria e la salute compromessa. Spesso la pianta dei loro piedi era infestata da vermi con sofferenze inaudite. Il Prof. Pracanica, padre del nostro Kuntastorie, le curava amorevolmente e forniva loro tutti i consigli necessari.

Nel messinese, a strapiombo sul mare, si erge il promontorio del Tindari, su cui sorge il Santuario della Madonna Nera.

Si tratta di una statua in legno di cedro del Libano che rappresenta la Madonna con il bambino.

Giunta dall’Oriente, nascosta nella stiva di una nave, e abbandonata sulla spiaggia ai piedi del promontorio, – come narra una fra le più famose leggende locali – fu raccolta e custodita dai pescatori del posto.

Per tradizione, al Santuario del Tindari si andava e si va tuttora anche semplicemente come forma di penitenza o per chiedere una grazia alla Madonna o ancora per assolvere un voto. C’erano dei percorsi stabiliti che abbreviavano la strada, ma proprio per questo erano irti e scoscesi; gli ultimi cento metri della salita venivano fatti in ginocchio.

Fra i fedeli si trovavano un tempo tante povere donne che lavoravano in campagna, al mare e appunto nelle gelsominare.

Il racconto riportato è dedicato a queste donne, devote della Madonna Nera, fiduciose di essere comprese da Lei che, abbandonata sulla spiaggia, era stata raccolta e protetta da semplici pescatori. Emerge delicato, nella lirica, il ricordo affettuoso di una donna molto avanti negli anni.

Pulita, curata e linda nell’abbigliamento caratteristico della sua umile condizione, la vecchietta si rende ancora utile con quello che ancora può fare: dar da mangiare ai colombi …

La composizione, in dialetto, è opera dello stesso Nino, figlio del bravo medico che, con competenza e umanità, le ha curate; testimone oculare per altro delle piaghe delle “Gelsominare”.

Ascoltiamo la voce del poeta e del suo tamburello che esprime il ritmo del suo cuore (Questo è il ritmo del mio cuore – egli spiega):

 

 

© Antonina Orlando – Luciano Di Muro 05 Giugno 2019

GINA PREVITERA – TRADIZIONE, CULTURA E ARTE NEL CASTELLO DI MILAZZO

 

PALAZZO GOTICO PIACENZA – 1918 – 2018 CENTENARIO DELLA FINE DELLA GRANDE GUERRA

PALAZZO GOTICO PIACENZA 1918 – 2018 CENTENARIO DELLA FINE DELLA GRANDE GUERRA         

Uniforme da volontario garibaldino … Uniforme modello 1871 da Sottotenente del 48° Reggimento Fanteria Ferrara … Uniforme da Tenente del 61° Battaglione della Milizia Territoriale di Fanteria … Uniforme modello 1895 da Colonnello del 4° Reggimento Bersaglieri …Uniforme modello 1902 da Tenente del 10° Reggimento Artiglieria da Fortezza … Uniforme modello 1907 da Sottotenente del 4° Reggimento Genova Cavalleria …

Una lunga fila di uniformi accoglie il visitatore che entra nel Salone d’Onore del palazzo Gotico di Piazza Cavalli a Piacenza, per visitare la mostra allestita in occasione del centenario della fine della Grande Guerra. Tutte uniformi originali, come altre esposte in altri spazi (in tutto circa quaranta …) che, assieme a equipaggiamenti, decorazioni, documenti e oggetti personali, fanno rivivere le grandi sofferenze fisiche e psicologiche di quei lunghi anni.

La mostra, aperta dal 4 Novembre al 30 Dicembre 2018, non spiega i motivi della guerra, ma la pone davanti agli occhi del visitatore.

Fu una guerra che contribuì al completamento dell’Unità d’Italia, la “quarta guerra di indipendenza”: è una delle riflessioni che vengono in mente, osservando l’uniforme garibaldina, la prima uniforme ad essere presente all’ingresso. La camicia rossa fu indossata dapprima dai volontari di Giuseppe Garibaldi, durante il Risorgimento, e poi, nella Grande Guerra, dai legionari agli ordini di Peppino Garibaldi, nipote dell’eroe dei due mondi.

Spiegazioni chiare accompagnano tutto il materiale esposto: si tratta di materiale originale, messo a disposizione da collezionisti privati, fra i quali il dott. Filippo Lombardi, direttore della collana Piacenza in grigioverde, per comunicare i pericoli e le sofferenze che gli eserciti affrontarono in quei lunghi anni, ma anche per sottolineare il coraggio di giovani uomini e di ragazzi, il loro senso del dovere e della responsabilità, nonché gli ideali che li guidarono, portandoli al fronte, dove moltissimi di loro incontrarono una morte dolorosa, per conquistare, spesso in modo precario, pochi metri di terra.

I fili di ferro spinato attorcigliato e pieno di nodi, a cui sono assicurati campanellini di allarme, ricordano, per esempio, quanti cercarono di aprirsi un varco negli sbarramenti creati dai nemici. Pinze, cesoie e lance taglia reticolati, usate a tale scopo, sono esposte in vari modelli con il cartellino che ne indica la provenienza: Francia, Gran Bretagna, Russia, Italia, Austria – Ungheria … per dire che tutti i soldati affrontavano stessi problemi e situazioni simili.

Ed è questo uno dei messaggi che aleggia in ogni vetrina, accompagnato in sottofondo da significative note musicali.

Lo si ritrova anche nei cartelloni che raccolgono le immagini dei protagonisti della Guerra. Esse appartengono all’Italia, alla Germania, alla Francia, alla Serbia, al Belgio, al Vaticano, agli U.S.A., alla Turchia, al Giappone.

Non solo preoccupazioni e pericoli erano in comune, ma anche le idee e le innovazioni circolavano da un campo all’altro, sia che si cercasse di migliorare la condizione e la sicurezza dei militari – non sempre con successo, come nel caso della protezione in acciaio che si cuciva all’interno della zona frontale del berretto degli ufficiali e la cui efficacia non era sicura – sia che si creassero nuovi e più sofisticati strumenti di morte.

Studi e innovazioni, però, non sostituivano del tutto antiche usanze:

una gabbia per la custodia e il trasporto dei piccioni viaggiatori del servizio ricorda prassi consolidate, come l’uso di tali animali per trasmettere ordini e informazioni, mentre, poco distante da quella gabbia, trovano posto le idee e i perfezionamenti che nel 1832 l’allora luogotenente Giovanni Cavalli, famoso per i suoi studi nel campo dell’artiglieria, propose e realizzò per il gittamento dei ponti d’equipaggio.

Queste e molte altre ancora le testimonianze della mostra sulla Grande Guerra … ma ad un tratto, proprio in mezzo ad esse, si legge una scritta di speranza e di augurio – forse anche il pensiero di quanti allora morirono:

 

© Antonina Orlando 17 Dicembre 2018

PALAZZO GOTICO PIACENZA – 1918 – 2018 CENTENARIO DELLA FINE DELLA GRANDE GUERRA

“I CHICCHI DELLA NONNA”

“I CHICCHI DELLA NONNA” – In un angolo dell’Appennino ligure si trova una casetta graziosa. Essa è molto accogliente, come l’affettuosa ospitalità degli amici che la abitano e che qualche giorno fa siamo andati a trovare.

Il gioviale sorriso della coppia – emiliana lei, lombardo lui – ci è corso incontro appena giunti a Pontegiacomo, una minuscola frazione di Mezzanego, in provincia di Genova.

Zona di forte emigrazione fra XIX e XX secolo, con pochissimi abitanti e quasi sconosciuta, Pontegiacomo è posta a 423 metri sul livello del mare fra montagne poco distanti dall’Emilia–Romagna, dove si arriva dopo aver oltrepassato il Passo del Bocco.

Andreina e Volmer ci aspettavano e, dopo averci salutato festosi, ci hanno accolto negli ambienti sereni della loro caratteristica abitazione, il cui arredo prezioso, elegante e funzionale rimanda ai modi pratici, amichevoli e simpaticamente cordiali dei proprietari.

Essi provengono da terre di antica cultura con tradizioni che affondano le radici in epoche storiche lontane e in un continuo avvicendarsi di popoli. Amano viaggiare e immergersi nell’arte, nella storia e nelle tradizioni dei molti paesi che visitano, di cui, lontani dalle vie dei turisti, cercano anche di scoprire e di vivere la vita quotidiana.

A Pontegiacomo abbiamo cenato, dormito e ci siamo fermati fino al pranzo del giorno successivo, chiacchierando in modo amabile e interessante, godendo della salubrità della montagna verde e tranquilla e della fragranza dell’orto e dei fiori, fra farfalle e teneri gattini.

Non è certo mancata la cucina prelibata, ispirata per l’occasione alla Liguria, regione che ci ospitava, e all’Emilia di Andreina, in un significativo connubio fra i prodotti del mare e quelli della terra.

Abili cuochi entrambi, i nostri ospiti hanno cucinato insieme, ma ognuno di loro si è poi dedicato a qualcosa di speciale: Volmer ha preparato una squisita focaccia genovese e Andreina un ottimo piatto della più recente tradizione piacentina: “i chicchi della nonna”.

 

Preparare “i chicchi” sembra semplice, ma bisogna fare attenzione a qualche segreto.

Il loro condimento consiste in un ragù a base di verdure che, cucinate sapientemente, acquistano un sapore squisito e un delicatissimo aroma.

Il piatto va servito infine con un’abbondante spolverata di parmigiano e un buon bicchiere di vino.

Con il permesso dei nostri amici abbiamo filmato la realizzazione dei “chicchi”, a cui abbiamo partecipato in minima parte anche noi … quasi per gioco, in un clima di collaborazione familiare e laboriosa

Intorno, la vita: le erbette, raccolte poco prima nell’orto da Volmer, subito pulite e lavate, cuocevano sulla fiamma accesa del fornello, le patate bollivano nel pentolone, il profumo invitante del sugo si spargeva nell’aria e le note della musica in sottofondo rallegravano e rasserenavano l’animo; persino le condizioni climatiche partecipavano della festa, regalando un tiepido sole che scaldava l’aria e illuminava la stanza, mentre mamma gatta, miagolando fiduciosa, si avvicinava in cerca di cibo da portare ai suoi gattini: era un’atmosfera idilliaca, un quadro di sapore classico che, senza stridere, sapeva convivere con la moderna tecnologia.

E’ stato un soggiorno indimenticabile e, ringraziando la sensibilità e la gentilezza di Andreina e Volmer, mantano pubblica ora le diverse fasi della realizzazione dei “chicchi della nonna” e la ricetta della cuoca per ottenere il sugo con cui li ha conditi.

 

“I chicchi della nonna”:

 

1 – Preparare gli ingredienti.

Per l’impasto occorrono gr. 300 di farina di grano tenero, kg 1 di patate invecchiate e un pugnetto di erbette lessate.

2 e 3 – Pelare, schiacciare e impastare le patate, seguendo le raccomandazioni della cuoca.

4 – Aggiungere le erbette.

5 – Stirare la pasta fino a ottenere delle “bisce” da cui ricavare “i chicchi”.

6 – Ora “i chicchi” sono pronti per la cottura:

7 – cucinarli, scolarli e condirli.

8 Finalmente tutti a tavola!

 

Per il condimento:

“Il sugo dei chicchi della nonna è un normalissimo sugo formato da cipolla, carota e sedano tutti molto tritati e fatti soffriggere lentamente in olio d’oliva.

L’unica differenza consiste nella quantità: una piccola cipolla, due belle carote, due gambi di sedano.

Quando le verdure sono passate leggermente, aggiungere un mazzetto di aromi (rosmarino, basilico, alloro, maggiorana….. peperoncino, a piacere).

A questo punto aggiungere pomodori senza la buccia e un po’ di passata (anche i pelati vanno bene);  anche  per questi ingredienti è necessario essere generosi nella quantità.

Il sugo dovrà sobbollire a lungo.

Ai nostri giorni la panna nei sughi è una variante desueta e non più gradita.

Ricordo però che quando veniva preparato, – parlo di una quarantina di anni fa –  la panna da cucina era un ingrediente irrinunciabile.

Ciascuno si regoli, quindi, come crede!” (Andreina)

 

© Antonina Orlando 07 Settembre 2018

 

“I CHICCHI DELLA NONNA”

IL KUNTASTORIE NINO PRACANICA A MILAZZO

Il Kuntastorie Nino Pracanica a Milazzo – Storie romanzate, leggende contestualizzate nella storia, il popolo dei Siculi e la sua eredità culturale, grandi temi e profondi stimoli alla riflessione e all’e-ducazione di valori e sentimenti, mediante il risveglio dell’umanità e della cultura universale:

questa l’essenza dell’incontro del 14 Agosto scorso al Castello di Milazzo con il “Magister ludi” Nino Pracanica.

L’artista, grande innamorato della sua Sicilia, recupera, rielabora e ripropone storie, leggende, personaggi e antiche rappresentazioni dell’isola, per trasmettere conoscenza e cultura siciliane a chi non le conosce o le conosce poco, e a chi spesso le conosce solo attraverso il filtro di sguardi estranei e non sempre disposti a mettere in discussione apprendimenti stereotipati.

Chi può giudicare un popolo prima ancora di conoscerlo nella sua totalità?

E’ attraverso la conoscenza del suo animo, formatosi lungo lo svolgersi degli avvenimenti storici e  durante la costruzione di fatti e di espressioni culturali, che si può arrivare a capire e a spiegarsi i fenomeni e gli avvenimenti che segnano la vita di un popolo.

Ma è anche con la mente rivolta all’ “unicum” universale – come dice spesso Nino – che si deve guardare agli uomini e ai fatti umani, se si vuole entrare in sintonia con loro, comprendendoli nella loro globalità e nel loro perché.

I messaggi e gli insegnamenti di Nino passano al pubblico attraverso il gioco, l’arte e la rappresentazione scenica, non attraverso conferenze e lezioni cattedratiche.

Riso, dialoghi e collaborazione con gli spettatori costituiscono la metodologia , di cui il maestro si serve; e fondamentale è l’uso delle maschere che egli realizza assieme alla moglie nel suo laboratorio.

Esse sono immagini di vita. Ogni “imago” rappresenta personaggi storici, mitici e personificazioni di fenomeni naturali, a cui viene data vita con la parola, con i gesti, con il suono del marranzano e del tamburello.

Altrettanto importante e insostituibile il linguaggio non verbale accanto a quello verbale, siciliano.

Temi prioritari trattati:

  • il rispetto della donna anche attraverso il racconto della favola dei venti:

Nella conclusione di questa favola viene sintetizzato il significato della donna nella vita. Dopo essere stata uccisa, la moglie di Scirocco rinascerà per ordine di Eolo, ma il risultato del suo richiamo alla vita viene lasciato all’immaginazione e alla sensibilità del pubblico:

quale essere meraviglioso si formerà dall’aggregazione delle essenze profumate e delle immagini in cui si era polverizzata e dispersa la ragazza?

  • altro tema: la forza della cultura per ottenere cambiamenti comportamentali. La cultura ottiene risultati definitivi, cosa che non riesce a fare la guerra. Quest’ultima, infatti, da una parte impone una cultura non sentita dal popolo conquistato e perciò intimamente rifiutata e per questo incapace di produrre duraturi cambiamenti spirituali; dall’altra parte, non permette al conquistatore, convinto della sua superiorità, di riconoscere insegnamenti dalle terre occupate.

La cultura lavora sulla formazione e sulla trasformazione del pensiero e dello stile di vita di ogni essere umano.

Nino ce lo dice impersonando lui stesso i pupi siciliani con le maschere di Orlando, di Rinaldo e della bella Angelica:

  • L’attaccamento alla propria terra fino al sacrificio della stessa vita emerge dalla leggenda di Colapesce, il ragazzo che decide di rimanere sott’acqua, per reggere la colonna, su cui poggia Messina. Essa è stata spezzata da un fortissimo terremoto e, senza il suo sostegno, Messina sprofonderebbe in fondo al mare, trascinando con sé tutta la Sicilia.

La leggenda è inserita in un periodo storico: quello di Federico II di Svevia.

Ecco come il nostro Kuntastorie la presenta ai bambini:

Ai popoli ci si deve accostare con animo sereno e disponibile, spinti da onesto desiderio di conoscenza, per non travisarne costumi tradizionali di grande portata, come pure per non disconoscerne espressioni artistiche e letterarie autoctone o mutuate da altre fonti e rielaborate con personalità, creatività e sapienza.

Poeticamente, a un certo punto della sua vita, Nino è andato in cerca del padre e della grande madre Sicilia, spinto dall’irresistibile desiderio di conoscerli.

Ha incontrato dapprima il padre Ducezio, l’ultimo re  dei Siculi; a lui ha chiesto notizie della madre che ha incontrato successivamente e con la quale ha avuto un colloquio bellissimo.

Immagini, emozioni, riflessioni e parole del vissuto e dal quotidiano, sommatesi lungo lo scorrere della vita, hanno generato una bellissima poesia: “Cantu a matri Terra”

I minuti trascorsi con l’artista scorrono senza che nessuno li noti. Tra una rappresentazione e l’altra, tra una riflessione e l’altra, si è trascinati in un’atmosfera magica, dove convivono fantastici episodi e pensieri senza tempo.

Si risveglia l’immagine di un mondo universale “unicum”, dove tutto il creato è rivissuto nel suo insieme e dove l’Umanità, vista nella sua globalità, si riunisce all’universo.

Ritorna la cultura matriarcale della Sicilia, che è fecondità. E’ matriarcale persino il marranzano che si suona con il contributo della pancia da cui provengono i suoni arcaici dell’antica lingua siculo – sanscrita. È matriarcale la cultura della donna in gravidanza e quella dell’agricoltore che genera vita dalla terra.

Il nostro Kuntastorie incontra centinaia di persone al giorno, dalla mattina al pomeriggio inoltrato, anche con il caldo estivo. Ha già 75 anni, ma il suo entusiasmo e il suo desiderio di trasmettere un passato che non deve perdersi, gli danno forza e resistenza; lo rendono simpatico, lucido e brillante; capace di emozionare e di entusiasmare chi lo ascolta.

© Antonina Orlando 23 Agosto 2018

“CUNTU – CANTU E SONU”

"CUNTU – CANTU E SONU" –  Il 27 Luglio scorso, a Venetico Superiore (Me), si è svolto l’evento “Cuntu, cantu e sonu”, organizzato da Tony Tringali nell’ambito delle manifestazioni culturali dedicate alla Sicilia orientale.

 

 

 

 

“L’evento “Cuntu, cantu e sonu” è un neolaboratorio  estemporaneo” – come lo ha definito lo stesso Tringali nel corso della presentazione – “formato da artisti delle più varie provenienze, esperienze e primordiali intuiti artistici …”:

Lo spettacolo che ha ripercorso, drammatizzandola, la storia del popolo siculo e del suo arrivo in Sicilia, è stato molto interessante e si è avvalso dell’importante presenza del maestro e “Kuntastorie” Nino Pracanica, attento ricercatore, studioso e rielaboratore di storie e tradizioni siciliane ( “cuntu”). Assieme a lui la valida presenza di Valeria Di Brisco, cantante, attrice e aiuto regista (“cantu”), e di Francesco D’Amico, chitarrista solista e base musicale nelle recitazioni (“sonu”).

Regia e scenografie sono state affidate a Nicola Perolo.

Durante la rappresentazione sono state evidenziate problematiche antiche e recenti della terra siciliana ed è stato sottolineato l’obiettivo primario dell’associazione Siciliabook, di cui è responsabile Tony Tringali:

salvare le tradizioni siciliane e la lingua dell’isola, risvegliando nei suoi abitanti la coscienza e la consapevolezza del valore culturale della loro identità. Nei video seguenti sono riportati alcuni momenti rilevanti dello spettacolo:

  • il tentativo di distruggere abitudini e tradizioni siciliane dopo l’Unità d’Italia. Tentativo che, comunque, Nino inquadra in un contesto universale: infatti, quando una potenza vuole imporsi su altre popolazioni, spesso le costringe a rinunciare anche all’uso della propria lingua.

  • un ricordo sofferente dei bimbi (“carusi”) che lavoravano nelle miniere di zolfo, attraverso la voce di Valeria Di Brisco in “A li matri di li carusi”, poesia di Ignazio Buttitta:

  • l’abilità di Nino Pracanica che con il “tamburello” e il “marranzano”, strumenti musicali tradizionali, ha illustrato efficacemente qualche espressione linguistica siculo – sanscrita e ha ricreato gli ambienti sonori entro cui si è snodata la suggestiva rievocazione dell’arrivo dei Siculi in Sicilia.

  • la ninna nanna per fare addormentare il primo bimbo nato in Sicilia e la musica della festa che si svolge dopo che il bimbo si è addormentato:

Il lavoro di straordinario rilievo che da anni il nostro bravissimo Kuntastorie svolge assieme alla moglie Gina Privitera, artigiana, restauratrice e decoratrice, per creare maschere/imagines utilizzando legno, carta , cuoio, gesso e altro svariato materiale anche di recupero, è di risonanza internazionale; inoltre, i coniugi Pracanica fanno parte dell’Associazione “Les créateurs des Masque”, luogo di incontro, di scambi culturali ed esperienziali per artigiani/artisti che esprimono con le loro creazioni un mondo spirituale poliedrico, integrando sapientemente classicità e contemporaneità del mondo mediterraneo.

Maschere/imagines hanno arricchito la scena dello spettacolo e alcune di esse sono state indossate da Nino durante la rappresentazione.

Nel video seguente, la maschera/imago di Omero, nella cui fronte spaziosa e nella cui testa calva si può “leggere” la manifestazione dei pensieri, della fantasia e della memoria.

Alla fine dello spettacolo il Maestro ha gentilmente concesso a mantano un’intervista; eccone qualche simpatico esempio:

 

                                                          © Antonina Orlando 05 Agosto 2018    

"CUNTU – CANTU E SONU"

LE IMPIRARESSE

 

LE IMPIRARESSE 

 

“Anche nei lavori muliebri l’industria delle conterie fu tenuta in gran pregio, specialmente anni or sono. … E pensando al grande commercio delle perle, pel quale Venezia ha fama mondiale, ed ai diversi usi a cui vengono destinate, corre il pensiero a chi con tanta pazienza le passa tutte pel filo. S’intende parlare di quella piccola industria tanto diffusa fra le nostre popolane, che vien chiamata quella dell’impira perle o dell’impiraressa. … L’impiraressa che si dispone al lavoro, prende una matassa intera, la taglia per aprirla, … Da una parte il filo viene passato per la cruna degli aghi, si fa un nodo e si attortiglia il capo, (se fa un gropo e se intorcola el cao) e dal lato opposto si unisce la fine della matassa, formando una specie d’occhiello detto asola. Tutti gli aghi infilati, che dal numero di 40 possono arrivare fino al numero di 60 si tengono con le tre prime dita della mano destra, formando un ventaglio, cioè la palmeta, che viene immersa velocemente nella sèssola riempita di perle. … Meschino è il guadagno delle impiraresse pensando alla fatica materiale di queste poverette, che dall’alba a tarda ora di notte stanno sedute con la sessola sulle ginocchiaOltre che lavorare in casa, vi sono scuole apposite per le giovani impiraresse, dove la direttrice, la mistra, non soltanto insegna alle sue allieve, ma anche le paga. … (Irene Ninni, L'Impiraressa, Longhi e Montanari, 1893).

 

Quello delle impiraresse o impiraperle era un antico mestiere artigianale praticato a Venezia, soprattutto nei sestieri di Castello e Cannaregio, ma anche nell’isola della Giudecca e a Murano. Oggi esistono ancora impiraresse che cercano di tenere in vita l’antica tradizione, attualizzandola con realizzazioni creative di vario tipo, ma, proprio per questo, le loro esigenze e le loro attività sono diverse da quelle delle impiraresse di un tempo.

Mantano ha incontrato una delle odierne impiraresse in Calle de la Mandola, 3805A, a Venezia: una signora molto interessante che lavora nell’ambiente artistico del suo negozio – laboratorio, arredato con drappi rossi, espositori e specchi con cornici dorate, manufatti di diverso tipo e ciotoline ricolme di perline dai mille colori. Marisa Convento, nata a Marghera, veneziana d’adozione e appassionata collezionista di perle veneziane antiche, dopo un veloce saluto e una breve autopresentazione, si è preoccupata di ascoltare le domande che le venivano rivolte e di rispondervi esaurientemente, raccontando del suo lavoro e della storia della sua arte.

Ha spiegato che impiraresse (dal veneziano impirar > italiano “infilare”) erano  chiamate le signore che, tra l’Ottocento e il Novecento, avevano il compito di raccogliere su lunghi aghi perline di vetro prodotte a Murano, facendole, poi, scivolare nei fili di cotone inseriti nella cruna degli aghi stessi. Quando i fili erano colmi di perle, venivano sfilati dall’ago e richiusi su se stessi, formando collane che venivano impacchettate in mazzi con un numero prefissato di fili e un peso di mezzo chilo. “Il lavoro dell’impiraressa era dunque legato semplicemente all’infilatura delle perle a scopo trasporto”, – ci tiene a sottolineare Marisa – per evitare che, cadendo, si spargessero a terra e per garantirne dimensioni e qualità; per esempio per dimostrare di non essere orbe (termine veneziano > italiano “cieche”, cioè senza foro).

A lavoro ultimato, le collane assemblate venivano ritirate dalla fornace che pagava l’importo dovuto alla mistra (termine veneziano > italiano “maestra”) e che prontamente consegnava un nuovo carico.

La mistra era una figura femminile di imprenditrice che faceva da intermediaria fra le impiraresse e le vetrerie che fornivano le perle. Era lei che reclutava le lavoranti, ne organizzava l’attività (qualche volta anche in un suo laboratorio), riceveva dalle fornaci le casse di perle, il cui peso poteva raggiungere persino i novanta chili, e le consegnava alle donne per l’infilatura che doveva essere portata a termine in fretta: ogni settimana, infatti, venivano consegnate nuove quantità di perle e ritirate quelle precedentemente infilate . Era sempre lei, inoltre, a dare la paga alle lavoranti, in base al numero di mazzi completati e all’ammontare del compenso ricevuto dalla fornace, a cui detraeva una parte, tenendola per sé.

Le perle riconfezionate successivamente in mazzetti più piccoli e più maneggevoli, che servivano anche come unità di misura monetaria, venivano vendute a mercanti spagnoli, portoghesi, inglesi, francesi, olandesi, che, recandosi nelle nuove terre  esplorate, le scambiavano con oro, avorio, pietre preziose, pelli, spezie, seta e addirittura anche con schiavi.

Questa prassi fu seguita fino agli anni Sessanta del secolo scorso, dopo di che l’industria delle conterie pian piano perse il mercato e scomparve anche la figura tradizionale dell’ impiraressa.

Oggi le conterie non vengono più prodotte a Venezia, ma in molti altri paesi, come Repubblica Ceca, India, Taiwan, Giappone, dove tutte le fasi del lavoro, compresa l’infilatura, sono meccanizzate.

Le perle destinate a formare le collane si chiamavano conterie e potevano essere anche di piccolissime dimensioni. Si ricavavano da cannucce di vetro, bianche o dai colori vivaci, ed erano contenute nella sèssola, sorta di vassoio di legno, di varia misura e con il fondo concavo, costruito in casa, in genere dal marito.

Durante il lavoro che richiedeva grande pazienza ed era molto faticoso, le donne stavano sedute per moltissime ore, tenendo la sèssola sulle ginocchia.

 

Per velocizzare la produzione, aumentando così il numero dei mazzi pronti per la consegna, le impiraperle (altro modo di chiamare le impiraresse) tenevano in mano contemporaneamente molti aghi lunghi, spuntati e di varia grossezza, ognuno con il suo filo.

Le più brave riuscivano a gestire anche sessanta – ottanta aghi: li tenevano fra le dita di una mano, a ventaglio, e li immergevano nella massa di conterie contenute nella sèssola, riempiendoli abilmente con l’aiuto dell’altra mano e facendo scorrere le perle lungo i fili.

I fili usati dalle impiraresse erano sottili, dal momento che venivano utilizzati soltanto per impacchettare e trasportare le perline; oggi, invece, servendo per la creazione di gioielli ed altri oggetti, devono essere più robusti e, per facilitare il loro impiego, si ricorre a qualche espediente, come quello usato dalla nostra Marisa: crea un anellino, –infilando una piccola quantità di filo nella cruna dell’ago, e dentro l’anellino così ottenuto – “piccola estensione della cruna” – fa passare il filo da riempire con le perle.

Spesso le impiraresse cominciavano a lavorare ancora bambine (dieci, dodici anni) – ha sottolineato Marisa emozionata, mentre mostrava la vecchia foto di una bambina di circa dieci anni e faceva notare la povertà documentata dallo scatto – e andavano avanti fino a tarda età. Nelle belle giornate si riunivano in calli e campielli, aggiungendosi con la loro immagine alle note caratteristiche dell’ambiente veneziano.

Quasi tutte le impiraresse lavoravano a domicilio, pochissime in un laboratorio o dentro le stesse fabbriche di conterie ed erano pagate a cottimo; si calcola che intorno a fine Ottocento – inizi Novecento ve ne fossero in attività circa cinque o sei mila, ma, non essendo state registrate da nessuna parte, non se ne conosce il numero preciso.

La retribuzione piuttosto misera e il lavoro ingrato, in condizioni terribili, soprattutto per chi lavorava in laboratorio, fecero sì che nel 1904 alcune di loro si organizzassero per scioperare.

La produzione delle conterie fu molto importante dopo il 1797; dopo, cioè, la caduta della Repubblica di Venezia, quando declinò la produzione del vetro soffiato, in seguito ai provvedimenti presi durante la dominazione francese prima e durante quella austriaca successivamente. “Le perle veneziane” – ha detto Marisa – “non devono essere considerate un’arte minore, rispetto al vetro di Murano, ma un virtuosismo della lavorazione del vetro – date le dimensioni notevolmente più piccole rispetto agli altri oggetti”.

Con il volto incorniciato da morbidi boccoli argentati e con occhi chiarissimi dietro l’originale e simpatica montatura delle lenti, Marisa ha continuato a parlare di colonie e di commerci coloniali, di baratti e del valore monetario delle antiche conterie; di contatti con popoli sconosciuti allettati dalle perline coloratissime e dei tentativi di missionari, esploratori e mercanti di stabilire anche per mezzo di esse relazioni amichevoli nelle nuove terre, facilitandone così in molti casi la successiva colonizzazione.

Sebbene oggi il lavoro artigianale sia stato soppiantato da quello industriale e molte perle non vengano più prodotte dalle vetrerie veneziane e muranesi, tuttavia, l’impiraressa Marisa, assieme ad altre sue colleghe, cerca di far sopravvivere un artigianato di alta qualità che produce capolavori; lei stessa anzi utilizza ancora perline originarie muranesi di fine ottocento o dei primi decenni del Novecento che erano rimaste invendute nei magazzini o che si è procurata dalle ex colonie in America, dove ancora ne sono rimaste dai vecchi commerci e dove vengono utilizzate per restaurare antichi ornamenti.

Con soddisfazione, alla fine dell’incontro ha mostrato una scatolina rossa che tiene in vetrina e che contiene un bel medaglione di vetro anch’esso rosso, su cui è inciso un leone “in maestà” (in moleca) dorato: è il premio che ha ricevuto dal comune di Venezia il 25 Aprile scorso, giorno di San Marco; ne è contenta, perché la sua dedizione viene ricompensata, e con orgoglio ci ha anticipato che quest’arte tradizionale, che ha fatto conoscere nei vari continenti la bellezza delle coloratissime perle veneziane, nata fra la fame e la povertà delle donne del popolo e alimentata dalle espansioni e dai commerci coloniali di fine Ottocento – inizio Novecento, sta per essere riconosciuta e protetta dall’UNESCO.

 

 

 

Di seguito qualche momento delle sue spiegazioni e delle sue dimostrazioni

 

Lavorazione, produzione e commercio delle perle

Il commercio delle perle veneziane

I lavori di Marisa

Il messaggio di Marisa

 

 

                                                                                                                        © Antonina Orlando 31 Maggio 2018

 

 

 

LE IMPIRARESSE

 

 

 

L’INTELLIGENZA EMOTIVA

L'INTELLIGENZA EMOTIVA: Il 25 Giugno scorso, al Bar Pietro, piola sardo – veneziana di Torino, si è parlato delle emozioni che nascono dentro di noi e di come "leggerle" con intelligenza.

Dopo la presentazione del Prof. Paladini, la Dott.ssa Diana Nicastro – che assieme ad alcuni colleghi ha dato vita all’Associazione “Cuori intelligenti”, scuola di Intelligenza Emotiva – ha spiegato l’importanza dell’intelligenza emotiva relativa alla conoscenza delle nostre emozioni. E’ fondamentale – ha detto la Dott.ssa Nicastro – imparare a conoscersi bene, per individuare le proprie ricchezze interiori e i propri limiti; le une e gli altri, infatti, si ripercuotono sul nostro corpo e nella nostra mente, determinando atteggiamenti e comportamenti con i quali inviamo messaggi a chi è intorno a noi. Una volta consapevoli delle nostre emozioni, possiamo trovare soluzioni adeguate a quelle negative e far emergere al massimo quelle positive, punti di forza utili ad instaurare valide relazioni con la realtà in cui ci troviamo a vivere.

Alla percezione delle proprie emozioni si giunge in modo sempre più chiaro, affinando l’ascolto di se stessi, l’andirivieni dei propri pensieri e il risultato dei propri comportamenti. Più impariamo ad ascoltarci, maggiore è la possibilità che abbiamo di comprenderci e di decidere responsabilmente e coraggiosamente.

Bisogna, inoltre, cercare di essere il più possibile se stessi nelle relazioni interpersonali e nell’affrontare le situazioni positive e/o negative che la vita ci dà. Questo ci aiuterà anche ad affrontare i cambiamenti che faremo nell’arco della vita e che ci chiederanno di passare da una situazione di equilibrio raggiunta ad una successiva da raggiungere. I momenti di passaggio da una posizione di equilibrio all’altra, possono ingenerare, assieme alla perdita di stabilità, confusione, senso di solitudine e di incertezza, per superare i quali occorre aumentare il potenziale di intelligenza emotiva, dotandosi di strumenti che ci permettano di avanzare da soli e di trovare di volta in volta la reazione giusta.

Ad ottenere questo scopo possono aiutare momenti di confronto con altre persone: inseriti in piccoli gruppi di lavoro mirato, gestiti da esperti, è possibile così venire a conoscenza di altri punti di vista e prendere coscienza di altre verità in un percorso di arricchimento vicendevole.

L’incontro, interessante, ha coinvolto i presenti, alcuni dei quali hanno chiesto chiarimenti e approfondimenti sugli argomenti trattati.

                                     © Antonina Orlando  27 – 06 – 2017

 

L'INTELLIGENZA EMOTIVA

ALBINISMO IN AFRICA E UNIVERSALITA’ DELLO STIGMA

 

ALBINISMO IN AFRICA E UNIVERSALITA' DELLO STIGMA: questo l’argomento trattato domenica scorsa al Bar Pietro, piola sardo-veneziana di Torino, dove periodicamente vengono proposti libri, autori e tematiche culturali.

Durante l’incontro che ha preceduto di qualche giorno la Giornata Internazionale dell’Albinismo, proclamata per il 13 Giugno dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, è stata presentata l’edizione italiana del libro Il Moukala di Kedi di Andre Ebouaney, in cui si descrivono il trattamento riservato agli albini e la considerazione in cui essi vengono tenuti nel piccolo villaggio di Makossi, in Africa.

Nel suo breve romanzo l’autore italo-camerounese riporta l’ambiente geografico e culturale, dentro il quale prendono forma e si sviluppano i sentimenti e le vicende dei vari personaggi.

Fondamentale per lo svolgimento dell’azione è la scelta del termine generico “moukala” (bianco) e non dello specifico “nguenguerou” (albino), fatta da Kedi per informare i genitori che il suo promesso sposo è un “bianco”.

Da tale scelta, infatti, deriva l’equivoco che dapprima alimenta entusiasmo e grandi aspettative nel villaggio e nella famiglia di Kedi e che poi, dopo la constatazione della realtà, causa delusione e amarezza.

Il Signor K., fidanzato di Kedi, non è “tutto bianco e venuto dal paese del freddo”(p. 35), a portare ricchezza e prestigio1, come ci si aspettava, ma un albino e “A Makossi, nascere albino era la peggiore maledizione che un bambino potesse scagliare contro la sua famiglia e l’intera comunità”(p. 63)

La considerazione di questa realtà, assieme al suo rapporto con l’odierna globalizzazione, è stata pre/tesTO per interessanti interventi non solo sullo stigma dell’albinismo, ma anche sulla sua strumentalizzazione e sullo sfruttamento economico che ne deriva.

In alcuni paesi africani, come Tanzania, Malawi e Monzambico – è stato ricordato – le parti del corpo degli albini vengono utilizzate per riti magici e, assieme alla pelle, vengono vendute a prezzi altissimi, permettendo facili guadagni e rapidi miglioramenti sociali.

In quei paesi, dunque, viene praticata una vera e propria caccia all’uomo albino2 che, generalmente disprezzato ed emarginato da vivo (“Stava per scendere anche l’altro passeggero … il più atteso … straniero e … venuto … dal paese del freddo. Curiosamente, nessuno gli andò incontro. … Nessuno si mosse … L’animazione si era spenta di colpo”(pp. 60-61), diventa prezioso da morto, quando le parti del suo corpo sezionato vengono vendute a caro prezzo.

Bisogna aggiungere, però, che qualche volta l’albino può servire da vivo3; ne consegue allora che anche lo stigma dell’albino, come qualsiasi altro stigma, non si può definire in assoluto, ma va contestualizzato, come l’ordalia dell'acqua fredda4 – ha spiegato il prof. Paladini – che è regolata dagli interessi del momento.

 

Di seguito alcuni momenti dell’incontro

 

1 Il Signor K., fidanzato di Kedi, non è “tutto bianco e venuto dal paese del freddo”(p. 35), a portare ricchezza e prestigio … (Andre)

In quei paesi, dunque, viene praticata una vera e propria caccia all’uomo albino … (Andre)

Bisogna aggiungere, però, che qualche volta l’albino può servire da vivo … (Andre)

4 anche lo stigma dell’albino, come qualsiasi altro stigma, non si può definire in assoluto, ma va contestualizzato, come l’ordalia dell'acqua fredda … (Paladini)

                                                

                                                                                                                                                         

  © Antonina Orlando  13 – 06 – 2017

 

                                               

ALBINISMO IN AFRICA E UNIVERSALITA' DELLO STIGMA